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IL MIO IRAQ. E QUELLO DEGLI ALTRI. 16/1/2016, 25 anni dall'inizio dell'olocausto

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In Siria e in Iraq le forze patriottiche sono all’offensiva.
Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)
E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).
Una partita con tre campi da gioco
In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni  dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”.  Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.

Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012. Non mi sono mai potuto privare della scoperta di trovare, in tutti questi campi, immancabilmente gli Astenuti o “Né-Né”. In Palestina, pur biasimando il regime sionista, predicano la nonviolenza a coloro cui andavano sfasciando la testa le SS sioniste e arrivano a dare del “terrorista” a quelli a cui orde di robocop trovano (o mettono) un coltello addosso. Pur alzando il ciglio sull’occupazione  britannico-fascista dell’Irlanda del Nord, rampognavano la risposta dei repubblicani, troppo dura, e ne festeggiarono la resa, come trionfo della pace, con l’Accordo del Venerdì Santo (1998). In Palestina il “diritto dello Stato di Israele di esistere” si confonde con i pat-pat sulle spalle degli espropriati e genocidati. Fino a inebriarsi della truffa di Oslo e dei “Due Stati”.e caldeggiare marcette pacifiste di 10 palestinesi e 4 israeliani.

Con la Jugoslavia, l’epistemologia sulla natura di cosa andava succedendo e chi erano gli attori in scena ha visto la prima manifestazione della sindrome schizofrenica che colpisce gli Astenuti. Nato cattiva, ma Milosevic dittatore. Dunque, eticamente, né-né. Tra chi bombardava televisioni, ospedali, case, ponti, treni, scuole, fabbriche petrolchimiche, per ridurre in frantumi e contaminare un paese e chi questo trattamento lo subiva, fiorì rigoglioso il né-né. Né con la Nato, né con Milosevic. Ma in fondo, un po’ meno di meno, con quei ipernazionalisti del dittatore serbo.E così, succhiando linfa dall’informazione totalitaria e oligarchica, lastricavano di buone intenzioni la strada per l’inferno.
Con una coerenza invidiata da tutti noi, in Libia si incupirono più degli inesistenti “bombardamenti di Gheddafi sulla propria gente” degli spavaldamente esistenti missili a pioggia. E rivestirono di panni sgargianti di arcobaleno iinvasati terroristi che decollavano e scuoiavano civili e prigionieri. Spettacolino ripetuto per Iraq e Siria. Su un popolo cui per 25 anni hanno riservato un destino mostruoso, paragonabile a quello palestinese solo perché questo dura da settant’anni, hanno fatto pendere, e continuano a farlo, la spada di Damocle del dittatore Saddam. Ha sterminato 200mila curdi (sono ancora tutti lì e si mangiano pezzi di Iraq su mandato USraeliano), divorato il Kuweit (provincia irachena rescissa dai britannici), represso il suo popolo, sterminato 5000 comunisti (mai successo). E in fondo, ignominia!, anche amico degli Americani che lo hanno armato (mai amico, mai armato, se non dall’URSS). Così ha potuto essere tranquillamente preso a calci e appeso.

Oggi si esercitano con passione sulla Siria dove, con un copia-incolla dal Pentagono, trascrivono e diffondono  l’anatema contro “i governi che fanno la guerra ai propri popoli” (si sa quali) e l’auspicio, con un’ occhiata al “dittatore Assad”, “per la pace e la democrazia in ogni paese” (dove si sa cos’è questa democrazia e chi la esporta). Ma ovviamente, pur condividendone la ragioni, sono contro le guerre Nato. Né-né. Un messaggio che fa facile presa su gente che non vuole problemi..
Il 12 maggio del 1977, mio genetliaco,  un candelotto centrò il mio ginocchio. Mi inseguirono e fotografarono. Era la manifestazione pro-divorzio nella quale, anche sotto i miei di occhi, a Ponte Garibaldi di Roma, i “Falchi” omicidi di Cossiga ammazzarono Giorgiana Masi. La notte e il giorno dopo, rastrellamenti. Ne avevo viste e subite abbastanza per togliere il disturbo. Il compagno medico, Giorgio Alpi, papà della mia collega Ilaria, mi fece avere un certificato medico per il lavoro. Arrivai nello Yemen. Fu nell’estate di quell’anno che, dallo Yemen, il mio settimanale, “The Middle East”, mi spedì in missione a Baghdad.
Guerra e genocidio strisciante
Una metropoli enorme, accogliente come sempre gli arabi, rutilante di luci, straripante di vita, soprattutto giovanile, con attorno alla vita la scintillante cintura del Tigri. Percorsa in un fremito ininterrotto da popolazione, cantieri, trasporti, torme di studenti, ragazze in minigonna, formicolante di iniziative culturali nei mille e mille centri d’arte, letteratura, archeologia, di elaborazione politica, che erano sorti, accanto alle istituzioni statali e del Partito Baath, per iniziativa delle organizzazioni di massa, delle donne, degli studenti, dei lavoratori, dei poeti, degli anziani. Il primo contatto fu con il direttore del quotidiano Ath Tawra (“La Rivoluzione”), Nassif Awad, già braccio destro del poi ministro degli esteri Tariq Aziz, un palestinese con alle spalle la militanza nella resistenza del suo popolo. La nostra amicizia attraversò la gloriosa fase della costruzione di una nazione, la prima aggressione del 1991, la sbalorditiva ricostruzione in pochissimi anni, a dispetto delle tremende  privazioni dell’embargo, la forza e dignità di un popolo tuttavia in piedi, a dispetto delle bombe di Clinton e dell’assedio per fame. Fino all’ultimo incontro, a cena a casa sua, il 30 marzo 2003, con gli americani alle porte. Diventai il corrispondente da Roma di quel quotidiano e poi anche di “Baghdad Observer”, in lingua inglese, diretto da Naji al Hadithy, brillantissimo operatore culturale a Londra, dove l’élite intellettuale inglese frequentava il suo “Centro Culturale Iracheno” e, poi, ministro degli Esteri, con Saddam sino alla fine.

Sovrastata dalle immagini di rovina, disperazione, sgretolamento, di oggi, la memoria fa fatica a ricostruire ciò che erano la Baghdad e l’Iraq di allora. Un paese impegnato ad attenuare la centralità dell’Islam e ricostruire le fondamenta storiche della nazione, riappropriandosi laicamente di tradizioni e patrimoni millenari, sumeri, assiri, babilonesi, quelli della civiltà che ha partorito tutti noi. Quelli che i dominatori, bizantini, ottomani, britannici, avevano cercato di espellere dall’immaginario collettivo, dallo stesso DNA del popolo. Erano pratici di sradicamento della memoria e quindi dell’identità di genti da dominare. Quanto lo sono oggi i loro mercenari che polverizzano Palmira, Niniveh, Hatra, Assur, Nimrud, Ctesifonte… i predatori preferivano affidare la gestione della mente collettiva ai preti, tanto più che la religione con le sue varie confessioni, più della laicità e magari di un progetto socialista, apriva la possibilità all’irrinunciabile “divide et impera”.
Percorsi l’Iraq in anni vari da cima a fondo, dalle paludi intorno a Bassora sul Golfo  alle montagne del Kurdistan, al confine con un Iran dove già rumoreggiava la rivoluzione khomeinista (e quella dello scontro tra due validi e integri antimperialismi è stata la tragedia fondante della catastrofe, sollecitata da un Kissinger che sentenziò: “Si devono dissanguare a vicenda”  e oggi allargatasi allo scontro, una volta di più concepito e fomentato dai revenantscolonialisti, tra sciti e sunniti in tutta la regione). Mohammed Ghani, sommo pittore, mi fa da guida attraverso una nuova  creatività artistica irachena, consapevole della modernità, simile a quella dei futuristi sovietici per slancio vitale e tematiche legate al riscatto del popolo.

Sanzioni per sfoltire in vista della soluzione finale
Nel docufilm “Genocidio nell’Eden”ho cercato di offrire spunti di conoscenza di un Iraq, pesantemente colpito dalla Guerra del Golfo, 1991, “Tempesta del Deserto” e poi dalle sanzioni più feroci mai inflitte. Un Iraq coperto di piaghe, ma non domo e che ancora emanava la luce degli anni della rinascita, quella iniziata dopo l’indipendenza del 1956, sotto una successione di presidenti laici e nazionalisti  e rilanciata dalla rivoluzione del Baath del 1968, con Ahmed Al Bakr e Saddam Hussein (che diventa presidente nel 1978). Ci tornai poco dopo la fine dell’assalto di Bush padre. Saddam si era ripreso il Kuweit, già 19esima provincia dell’Iraq, sceiccato con classica operazione colonialista staccato dal corpo iracheno e messo in mano a un satrapo vassallo. Si trattava, per gli inglesi, di conservare, dopo la nazionalizzazione del petrolio iracheno, l’area dei giacimenti più ricchi. Washington finse chissenefrega, pregustando il pretesto per l’inizio dell’olocausto.
Con l’Italia dei galantuomini Andreotti e Amato, costituzionalisti rispettosi dell’articolo 11, ma più di Washington, scattò sull’attenti e si impegnò. Al crimine si aggiunse il ridicolo: due piloti abbattuti alla prima sortita, ma riconsegnatici da un nemico che ai crimini risponde con la correttezza.Trenta paesi all’attacco di uno, bombardamenti equivalenti a 6 bombe atomiche, 400 tonnellate di uranio-plutonio a minare milioni fino alla fine del mondo. Centomila soldati in ritirata inceneriti con le bombe a ossigeno. Altre decine di migliaia sepolti nelle loro trincee da tank usati come Bulldozer. Ma Bush viene fermato davanti a Baghdad. Ci voleva qualcosa di più forte del Kuweit invaso. Magari un 11 settembre.
La coalizione internazionale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
Seguono 12 anni di embargo mortale, punteggiato dai continui bombardamenti di Clinton su centrali elettriche, depositi di viveri e farmaci, ospedali, scuole, centri abitati, fabbriche, palmizi (base alimentare degli iracheni), porti e aeroporti, ferrovie. Il tutto per far avanzare il genocidio strisciante, attraverso la distruzione di presidi e mezzi sanitari ed alimentari, di impianti di purificazione dell’acqua, innescato dall’uranio. Tra quella guerra e il 2000, tornai tre o quattro volte. Una con Ramsey Clark, ex-ministro della Giustizia e poi militante antimperialista e il suo gruppo “International Action Centre”  ad approfondire e denunciare al mondo la Shoa irachena da embargo. Intervistai Tariq Aziz, colto e onesto cristiano, il vicepresidente Izzat Ibrahim, poi leader della Resistenza contro l’occupazione, Taha Yassin Ramadan, altro vice, insegnanti e alunni in scuole in disfacimento, medici eroici, privi di tutto, perfino anestetici, che si battevano in ospedali dilapidati contro tassi di incremento delle patologie fino al 50%: cancro, polmoni, tiroide, fegato, sistema immunitario tutto. E le madri in ospedale, immobili, con gli occhi fissi su neonati deformi.

Ci tornai anche con quelli di “Un Ponte per Baghdad”, prosperati sui viaggi organizzati in Iraq, fornitori di qualche cartone di farmaci e di materiale scolastico. Tutto sommato bravi, solidali, senza riserve manifestate. Fino a quando il governo cadde e l’Iraq iniziò a morire. Dopo prevalse la vulgata del Saddam dittatore, dell’occupazione auspicabilmente portatrice di democrazia, fino ai né-né di oggi, con il suo capo storico, Alberti, a fianco dei “ribelli” siriani. Un’altra volta venimmo a fare capodanno. Già imperversava la fandonia delle armi di distruzione di massa, delle stragi di Saddam, con ispettori, guidati da spie, che rovesciavano ogni granello di sabbia per una finta ricerca di ADM, ma per un effettivo studio della preparazione militare del paese. Già rombavano suoni di guerra. Ci ponemmo, alcune decine di anti-guerra da tutto il mondo, come scudi umani, con tanto di striscioni e pettorine, davanti alle istituzioni, alle centrali, sui ponti, nelle assemblee, nelle chiese e moschee. Non avremmo fermato le bombe. Non ci avranno percepito i ciechi, sordi e muti dall’altra parte del mare. Ma so per certo che agli iracheni ha fatto piacere. Tutti quanti, nel dolore e nella rabbia, ci siamo sentiti un po’ più caldo al cuore.
Armageddon sulla via di Baghdad
Naturalmente né noi, cui sarebbe bastato accendere un cerino nel cervello del mondo, né gli iracheni,  vivi ma mutilati, fermammo gli staticidi e antropofagi. Non ho mai capito perché cronache e storici fanno iniziare l’attacco all’Iraq il 20 marzo 2003. Annusata la miccia, ormai accesa, insieme a tanti altri colleghi,  nonostante Baghdad avesse annunciato il ritiro dal Kuweit e fartto rientrare gli ispettori, volai ad Amman il 16 del mese. Lì rintracciai uno dei vecchi taxisti che conoscevo da precedenti viaggi, e all’imbrunire partimmo. Quattro falafel in una bettola al confine e, poi, il semideserto fino alla capitale. Khaled aveva già fatto in giornata un’andata-ritorno per complessivamente 2000 chilometri. Ogni tanto si appisolava. Una volta finimmo contro un palo della luce e, un’altra, scattò su come una molla: c’erano stati due sibili sopra le nostre teste e due esplosioni più in là. Quando 2km dopo, passammo davanti all’unico ristoro in tutto il tragitto, ci trovammo una voragine, macerie e fumo. Era la notte dal 16 al 17 marzo e la guerra era iniziata. Almeno lì. Ho  fantasticato su un collegamento tra i missili sulla massima strada di comunicazione tra l’Iraq e l’estero e l’ordine che Bush aveva impartito ai giornalisti di non andare nella capitale dello Stato Canaglia, ma di seguire le truppe alleate in avanzata. Di fare gli embedded, a letto con i militari. Avrei avuto una conferma.
Era un’alba scintillante di sole e cielo limpido, quando arrivammo a Baghdad, la capitale del califfo delle Mille e Una Notte, Harun el Sharid e, oggi, quella del capofila, dopo la morte di Nasser, del riscatto nazionale e sociale arabo.Definito “dittatore” sulla base del più gretto eurocentrismo e senza conoscenza e rispetto per il contesto storico e culturale, dopo un millennio di domini assoluti stranieri e la decomposizione dei popoli in tribù.   Massimo sostenitore della Palestina, massimo baluardo antimperialista, paese più progredito del cosiddetto Terzo Mondo. Quel cielo era ferito da colonne di fumo che poi si allargavano a enormi capitelli e, ai lati della strada, fosse fumanti, fiamme, cose annerite, cose squarciate: carretti, automobili, un bus, corpi, un ponte da circumnavigare perché fatto a pezzi.

Verso il centro, tra altre rovine ancora roventi, ambulanze, polizia, posti di blocco, il solito traffico frenetico, le solite bancarelle nei mercati, negozi aperti, gente ai bar. E la sera, in Piazza Paradiso, davanti all’Hotel Palestine, quartier generale della stampa estera, tra fontane zampillanti e sotto la statuta del Rais, le stesse famiglie di sempre con i bambini razzolanti e strepitanti, le stesse coppiette, i ragazzi ilari che da noi stanno sui muretti. Nassif, mi aveva trovato un albergo, il Mansur, meno zeppo di giornalisti, ma vicino al Ministero dell’Informazione. Era passato a ministro per i profughi palestinesi (aveste visto la meraviglia del loro quartiere, i campi di calcio, le botteghe, i palazzi nuovissimi, su vie larghe e ordinate, il calcetto sul marciapiede, le scuole! Mi sono venuti in mente i formicai di Sabra e Shatila).
L’idea era di agevolarmi nei contatti con quel ministero, dove si sarebbero tenute le conferenze di stampa e i briefing. Ma si sottovalutava un altro elemento. A Belgrado avevo visto polverizzare la televisione e il Ministero dell’informazione con 17 giornalisti e tecnici dentro. Così sarebbe successo per prima cosa a Tripoli e Damasco. Azzerare la voce dell’altro materialmente, dopo averla degradata verbalmente a propaganda di regime, falsa e bugiarda. Quella che dai nostri regimi si dice sia bandita nel nome della democrazia… Infatti, fin dalla prima notte mirarono all’unico nemico che gli avrebbe potuto nuocere, quello dell’informazione altra e, mentre, dal balcone della mia stanza, filmavo roghi e deflagrazioni micidiali, con accanto due film-maker giapponesi che, eccitatissimi, correvano da una finestra all’altra., il pavimento pareva sussultare e venirci meno e i vetri ci scheggiavano addosso. Sparuti ospiti e tanto personale si erano tuffati nei rifugi sotterranei e noi potevamno sfidare impunemente il divieto di fotografare in zona governativa.
La mattina dopo, la cinquantina di giornalisti stranieri che, pur minacciati, avevano sostituito le migliaia di attesi e prenotati, si riuniva al ministero, scendendo da una terrazza su cui si erano installati, anche loro per comodità, tutte le televisioni presenti. Una mattina, tra le tende di una tempesta di sabbia che faceva tutto rosso, intravvidi la terrazza ridotta dai missili al classico negozio di vetri in cui s’è scatenato un elefante. La stampa straniera aveva fatto male ad andare a Baghdad. Poche ore prima avevo visto Giovanna Botteri, già mia collega al Tg3, fare da lì una diretta. La ragazza, tra Kosovo e Iraq, s’è guadagnata, con soddisfazione di Washington, la corrispondenza Rai da New York, la più ambita.
Peter Arnett, il mitico corrispondente dal Vietnam, poi dal 1981 nella CNN , licenziato per aver rivelato l’uso statunitense di gas nervino in Vietnam, già protagonista dell’informazione dall’ Iraq nella Guerra del Golfo e ora con la NBC, viene licenziato su due piedi al terzo giorno di apocalissi bombarole, per aver fornito una versione dei fatti non compatibile con le esigenze dei controllori del Pentagono installatisi nelle redazioni Usa. Eppure il nostro ufficiale dei briefing, Mohamed Al Salafi, era un impetuoso e articolatissimo tenore del controcanto alle voci del padrone. In Occidente lo definivano “Il pazzariello”, per screditarne le versioni così divergenti da quelle degli embedded. Venne provato corretto in varie occasioni, come quando gli alleati vantavano la presa di Najaf ed erano ancora impantanati a Bassora.
L’armata di Saddam era di un coraggio incredibile. Nella sua abissale inferiorità, non si era lasciata spazzare via se non dopo una ventina di giorni su cui fecero cadere un cielo di uranio e per esseri poi trasformata in guerriglia per anni. Ma le sue dotazioni erano sbrindellate e obsolete: vecchi armamenti sovietici di prima di Yeltsin. Delle volenterose milizie popolari neanche a parlarne. Eppure, per dare a Saddam la patente di doppiogiochista, ancora si favoleggia di armi, anche chimiche, fornite dagli Usa quando Saddam era “amico”. Mai successo, mai stato.
Kill, kill, kill
Dopo il bollettino di guerra e l’enumerazione dei danni  e delle vittime da bombardamento, i nostri colleghi iracheni ci portavano in pullmino attraverso la città a vedere le distruzioni. E le persone che ne venivano tratte. Erano strade lunghe e diritte come quasi tutte quelle della Baghdad moderna e ne veniva una visione, lungo i lati, di un serpente di rovine senza fine. Mi tornarono in mente Dresda o Berlino churchillizzate vissute da bambino. Mentre dai finestrini ci ferivano gli occhi queste teorie di edifici sminuzzati, Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera tuttora attivo da quelle parti, s’infervorava nel racconto, non so quanto romanzo popolare, dell’incontro notturno con la cameriera, “quella con le tette”. Scendevamo tra le persone che vedevamo formicolare sulle colline di macerie, a spostare sassi con le mani, tra tegole, quaderni, libri, pentole, maglioncini di bambini che punteggiavamno di colori un tutto grigio. Un ragazzo del Soccorso Popolare ci spiega: “Qui viveva una famiglia  di sette persone, quattro bambini. Sono ancora lì sotto. Perché ci fanno questo? Perché vogliono abbattere il nostro presidente? E’ il nostro presidente e lo amiamo. Che c’entrano loro?” Stupore, attonimento, più che sgomento.
Il 9 aprile gli alleati entrarono in città. Contemporaneamente Saddam veniva festeggiato dalla folla in quella che fu la sua ultima epifania da presidente.Quel giorno m’ero trasferito tra i colleghi al Palestine, forse per non farmi trovare dagli invasori, isolato, al Mansur con due sorridenti giappones. Tutti alle finestre e balconcini a vedere e filmare la prima colonna di carri armati Usa sferragliare verso di noi. In piena paranoia sparavano a tutto, palme comprese. Poi partirono due cannonate in immediata successione e il Palestine si aprì come una noce. Era arrivata la vendetta di Bush sui giornalisti disobbedienti. Morirono, credo, in sette. José Cuso, un collega spagnolo. Suo fratello gira il mondo da allora per trovare un magistrato che incrimini gli assassini. Lo  incontrai a Caracas con Chavez. E fu ucciso Khaled Ayub, di un Al Jazaeera non ancora voce del padrone. Ogni giorno celebravamo la nostra amicizia al banchetto del thè, sotto il ministero. Aveva un sacco di piccoli figli e non era un rettile, come tanti attorno a noi. Nei primi mesi di giornalisti ne furono tolti di mezzo 20. Nella guerra contro la resistenza, fino al 2007, altre decine ci rimisero la pelle. Quasi tutti erano disturbatori della quiete pubblica.
Arrivano diritti umani e democrazia
La battaglia finale, con gli iracheni al comando diretto di Saddam, furibonda e lunghissima e in cui gli americani rovesciarono sul nemico quanto di più spaventoso avevano, fu quella dell’aeroporto. Mi privai del raccapriccio di assistere alla devastazione simil-Isis dei tesori culturali e storici della Mesopotamia decidendo di andarmene dopo quella battaglia. Forse qualcuno degli invasori aveva avuto sentore di questo giornalista che da trent’anni rompeva. Magari, come è successo a parecchi colleghi “fuori linea”, compresa Giuliana Sgrena, avevano già inaugurato il metodo del rapimento da parte di finti combattenti della Resistenza. La sorte che, da Norimberga in poi, anzi, dai nativi americani in qua, si riserva  al vinto è sempre stata la violazione morale e la distruzione fisica. Un processo nel quale gli avvocati di Saddam finirono uccisi o banditi uno dopo l’altro e che divenne, con Saddam, un’imbarazzante tribuna della verità sull’Iraq e sui crimini dell’imperialismo. Vittoria morale da diluire nei trattamenti sprezzanti, nella scoperta di surreali nefandezze, nell’offesa alla persona (il presidente della Corte, selezionato dagli Usa, che inveiva come un forsennato contro l’imputato. Né Saddam, né il suo vice Ramadan, né Tariq Aziz (fatto estinguere in un lager e poi in prigione), nè altri dei dirigenti elencati nel mazzo di carte Usa, tutti con la taglia alla Western sulla testa e la sentenza certa, ebbero cedimenti. Al di là di cosa fossero stati, qui sono stati uomini di fronte a ratti.

In uno degli ultimi taxi che poterono uscire dalla città prima di coprifuochi e rastrellamenti vari, attraversavo una città come costellata di fuochi fatui, roghi che si spegnevano tra case diroccate. E’ stata davvero dura partire e non solo per quello che scorreva lungo i finestrini. Dietro, a sprofondare negli abissi  della morte, o di una non-vita, del non esserci più in quanto arto della comunità umana e, comunque, ucciso dall’indifferenza là fuori, lasciavo amici di una vita e tanti momenti alati. La tavolata di pesce di fiume della grande famiglia irachena lungo un Tigri che ci rimandava scintillante la luce dei lampioni, il comune sentire che sprigionavano le chiacchiere. Due medici,  Ryad Mustafa e Ryad Ryad, che, alla distruzione del loro ospedale (12 bombardati nei soli 20 giorni di guerra) avevano risposto aprendo con le mogli due ambulatori di quartiere, per sopperire, per quanto si potesse, in presenza di embargo su farmaci e strumenti. Gratis. La moglie di Mustafa, Suad, specializzata in Inghilterra, che promette di usare il coltello da cucina contro l’invasore e insiste: “Se qualcosa non va nel nostro paese, siamo noi a doverlo affrontare. Nessun altro”.
Il dottor Riad che mi invita a quella che sarà la mia ultima cena, a casa sua. Fuori, il  bombardamento ha le frequenze di un rock metallaro. Intorno all’humus, al montone, allo yoghurt con aglio e prezzemolo, ai datteri (avevano tirato fuori il meglio dal poco di provviste rimaste), c’è la famiglia di due genitori e tre figli, uno maschio sui diciott’anni. Riprendo la scena. Passo dal ragazzo che ha in braccio il Kalachnikov e promette di usarlo contro l’invasore, alla sorella, ultima classe del liceo, cui chiedo se ha paura: “Paura? No, mai!” Sono poi le due sorelle e una loro amica che in macchina, dribblando macerie e roghi come fossero fuochi d’artificio e scherzando e ridendo come si fa nell’adolescenza, mi riportano in albergo. In Iraq ci ho lasciato un bel po' di me, a compenso delle tante cazzate fatte negli anni.

Con la morte nel cuore
La strada più lunga e ardua della mia vita è stata quella lungo i corridoi e i reparti degli ospedali iracheni. Resa interminabile e angosciante da personcine come Abbas Ali, bimbetto di 4 anni ustionato dalla fronte all’alluce come fosse carne macinata e che avevo incontrato in un asilo per bambini disabili. O come l’anziano professosre tutto bendato, ma che dalle bende faceva uscire le dita a V.E i famigliari, appesi a quel nodo scorsoio della speranza, muti.
Ricordo il lustrascarpe di 12 anni, zoppo di una gamba, con la cassetta delle spazzole sulla spalla, bellissimo e sempre ridente, che dopo l’ennesimo iradiddio di bombe, mi passa accanto tutto impolverato, tenendo per cinquanta metri alta la mano con le dita a V: E ricordo una bambina di straordinaria forza espressiva   che, di sera nel quartiere popolare, vedo passare e riflettersi nella bottega dell’amico barbiere prodigo di frottole, del macellaio dalle battute a raffica. Ha il velo nero sulle spalle, nota la mia telecamera, si illumina di sorrisi e, senza mollare i miei occhi, va via. Poi si tira sul capo il velo. L’obiettivo la insegue di spalle, una figurina tutta nera, fino a  che si dissolve nel buio. Un’icona dell’Iraq.
Tutto questo l’ho fissato nella mia memoria e in quella di chi vorrà riviverlo, nel docufilm “Un deserto chiamato Pace”. Correndo via dalla grande città, rigogliosa, un tempo, di mille fioriture e impegnata a coglierle da passato, presente e futuro, ora con gli occhi  delle case sfondate sbarrati sul nulla, ci siamo affiancati a un pullmino. Ci siamo fatti segno per prendere il thè insieme al primo botteghino lungo la strada. Erano funzionari del Ministero per la Palestina. Con Baghdad in fiamme alle nostre spalle, le istituzioni disintegrate, con gli americani  padroni della città, avevano fatto in tempo a ripartire per il settimanale viaggio per la Palestina a portare gli ultimi 20mila dollari alla famiglia dell’ultimo martire palestinese. Questo era il mio Iraq. Poi è venuto quello degli altri.
Noi ridicoli scudi umani con pettorina e penna, dovemmo lasciare la culla della civiltà tornata in vita alla mercè della barbarie. Ma almeno ci avevamo provato. Era invece un mondo intero, invasato di razzismo, protervia occidentocentrica, particolarmente ottuso  nelle sue microespressioni trotzkiste ed emme-elle, che abbandonava, tradiva, chi si andava sacrificando in difesa di tutti noi. Pugnalata alle spalle poi ripetuta su Libia, Siria, Afghanistan, Venezuela. I predatori Usa, impiegando una manodopera importata, saccheggiarono due tra i massimi patrimoni storici e culturali del mondo, la Biblioteca Nazionale e il Museo Nazionale. Oggi si sono ripetuti attraverso loro surrogati a Nimrud, Palmira, Hatra: cancellare quanto popoli hanno creato dandosi un nome, una coscienza di sé, un’identità, un ruolo nell’evoluzione umana. E mercificare a proprio profitto i reperti.

E vennero gli abusi sui prigionieri, gli stupri delle donne (vedi il film di Brian De Palma), sequestri, stragi, esecuzioni, torture,  vuoi eseguiti in proprio, vuoi affidati a terroristi reclutati per innescare lo scontro confessionale. E chi dei rapimenti rischiava di aver scoperto la vera matrice, come sono certo sia capitato a Nicola Calipari, finiva male. L’Isis, con l’altra denominazione di unità del “Risveglio”, l’inventò il criminale di guerra Petraeus, che ha poi messo a frutto la sua  esperienza di “False Flag” da direttore della Cia, ditta di eccellenza per tali operazioni. Vennero Guantanamo, riempita di innocenti rastrellati a caso, l’orrore di Abu Ghraib, punta di un iceberg che racchiudeva le nefandezze senza limiti di uno Stato criminale come non lo si era visto dall’inizio della vicenda umana, capace di far strage dei propri cittadini, di rapire, far sparire, torturare, assassinare extra giudizialmente. Una cricca transnazionale, più che uno Stato, pratico di golpe e sanguinose rivoluzioni colorate per regime change a suo arbitrio, genocida mediante l’arma della fame, dell’avvelenamento di acqua, terra, aria, cibo, mendace in ogni sua espressione, profondamente e peggiorativamente nazifascista sotto il velo narcotico di una democrazia grottescamente finta.  
Con l’Iraq, nel 1991, l’inferno, evocato da una minuscola conventicola di subumani insediatisi ai vertici del mondo con la religione dell’inganno e della soperchieria, ha iniziato a uscire dall’oscurità in cui lo aveva relegato la millenaria fatica umana per la vittoria della ragione, fin da Hammurabi e Nabuccodonosor. Un inferno che minaccia di rovesciarsi su tutta la Terra. Da Occidente avanza implacabile un’ombra nera che oscura il cielo e divora genti, nazioni, terre. Dopo aver sprofondato nel sangue e nel buio la Jugoslaia, l’ombra si è andata estendendo, spargendo narcosi e morte. A morire sono quelli laggiù, narcolettici siamo noi.

Ma a Ramadi, capitale della più grande provincia irachena, i miracolosamente risorti iracheni uniti, esercito e forze popolari, sunniti e sciti, hanno vinto sull’Isis e sugli Usa che li sostengono. E la Tikrit di Saddam è libera. Si va verso le provincie di Sulemanieh e Dyala, verso Kirkuk e Mosul. E gli amici russi prendono il nemico alle spalle in Siria. Forse lo smembramento deciso per il corpo dell’Iraq, sulla scia di quello che la Cristianità praticava lasciando squartare dai cavalli i reprobi, non avverrà. Forse l’Iraq vivrà.

Ma se qualcuno mi viene ancora a dire né con la Nato, né con Assad, o Saddam, o Milosevic, o Gheddafi, o Putin, metto mano alla pistola.

MANIFESTAZIONI: chi sfila, chi marcia, chi ci marcia

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“Apparentemente una democrazia è il luogo dove si tengono numerose elezioni a elevati costi, senza contenuti programmatici e con candidati interscambiabili”.(Gore Vidal)

“Preferisco i vinti, ma non potrei adattarmi alla condizione di vinto”  (Curzio Malaparte)

Il 16 gennaio, 25° anno dall’inizio dell’annientamento della nazione irachena, abbiamo manifestato a Roma e Milano e in qualche altro posto. Parlo di Roma. Qualcuno ha detto tremila. Forse. Comunque pochi e totalmente privi di slogan, cioè di partecipazione politica audio. Ha sopperito un tonante sound system e qualche orchestrina ambulante. L’età media era alta e la dissonanza tra i vari spezzoni pure. Dissonanza vigorosamente manifestatasi già nella fase preparatoria, caratterizzata da dispute, mediazioni su mediazioni, dissociazioni. C’era chi pensava di inserire nella piattaforma un riferimento ai “ribelli” siriani e all’impegno di difendere (quindi portare) “democrazia” dappertutto, dando implicito credito alle valutazioni di coloro che la “democrazia” la esportano radendo al suolo chi ne dovrebbe beneficiare. Peggio, essendo la democrazia che si conosce e di cui si auspica la difesa quella totalmente finta, è implicito che là fuori, in Siria, Iraq e via deprecando, di democrazia non ce n’è.


Altri portavano il loro contributo inalberando gli stendardi,  decorati a Washington e Langley, dei diritti umani come esemplificati da Amnesty International e Human Rights Watch. Presenze trasudanti perbenismo moralista e inquinamento ideologico, pretendevano manifestare “contro ogni governo che sceglie la guerra contro il proprio e gli altri popoli”. Qui riecheggia forte e chiara l’eco, mica dell’autoattentato tramite esplosivo dai servizi collocato nelle Torri Gemelle, costato la vita a 3000 concittadini (e di analoghe stragi di Stato precedenti e successive), ma del  consuntissimo stereotipo su Gheddafi, Saddam, Assad, dei cui popoli si è dovuto decidere l’estinzione in virtù del fatto che venivano “bombardati dai propri leader”. Cosa che magari condividevano, ma ne erano turbati meno, i veterobigottoni che, vittime di ossificazioni dogmatiche degenerate in superstizioni, insistevano che non aveva senso impicciarsi di genocidi e resistenze, fino a quando i rispettivi proletariati non avessero sistemato le proprie borghesie.

Guerra di classe, o di popolo? O l’una sta nell’altra?
Veri oscurantisti, irretiti dal ragno della pigrizia mentale in una tela tra bare polverose abbandonate nelle segrete. Ancora non si rendono conto che c’è stato un rimescolamento delle classi e che la progressiva uccisione del ceto medio in Occidente rende grottesco parlare di borghesia e proletariato, tanto meno di una classe operaia-avanguardia che da un secolo è abituata ad arrendersi. Abbiamo quei 62 super-ricchi che manovrano mezzo pianeta e ne hanno fatto una piramide anomala, in cui tra una base enorme e un vertice a spillo non c’è più nulla. Saranno ancora lì, a ripetere le loro giaculatorie, quando l’élite antropofaga dell’1%, nuova forma di capitalismo ed estrema forma di imperialismo, si sarà divorata proletariato, borghesia e mondo intero.

Non-violenza e non-non-violenza
Per niente dissimili, per quanto, diversamente da questi,  privi di classe ma ornati di piume arcobaleno, i non-violenti. Ho visto un cartello che diceva più o meno “Non bombe, ma diplomazia”. Davvero contundente, per dire. Sa di liberal amerikano, scritto con la k perché, a dispetto delle migliori intenzioni, irrimediabilmente incapsulato in logiche e formule con cui il paese di Lincoln, Jefferson, Roosevelt, nato e cresciuto nella pratica del genocidio, è ritenuto depositario di democrazia, libertà d’espressione, giustizia, liberatore da nazifascismi e totalitarismi vari. Seppure recentemente corrotto, tocca ammetterlo, da energumeni alieni al suo spirito fondativo. Democrazia, dunque, vorrebbe dire diplomazia. E viceversa.

Ma la democrazia in Occidente non esiste e la diplomazia, praticata da un Occidente privo di democrazia, sarebbe intesa esclusivamente a raggiungere gli stessi scopi delle bombe, ma prendendoti alle spalle con la vasellina (vedi Cuba, o Iran). Insomma, proporre che siano sempre coloro che la saprebbero più lunga sulle questioni del mondo, inevitabilmente i civili occidentali, ONU, UE, o qualche governo, a mettere le mani in pasta, non è che una forma dolce di colonialismo. Non si vuole capire che colonialismo è ogni forma di intervento occidentale fuori campo, tanto più che si trascina appresso il peso terribile di un millenario passato predatore e assassino. Qualcuno si è mai sognato di invocare l’intervento del Cairo, di Dar es Salam, o di Hanoi, per risolvere una disputa, mettiamo, tra Londra e Dublino? O Washington e Corea del Nord?

In ogni caso, prima della diplomazia, ci sono i rapporti di forza e quelli si stabiiscono sul terreno. Come ha fatto la Russia, sparigliando il gioco. Cosa pensa il nostro liberal amerikano, che con la Nato e i suoi ascari Isis pronti a consegnare Siria e Iraq, petrolio incluso, a Wall Street, l’aggressore si faccia da lui convincere alla diplomazia? E, poi, quale diavolo di diplomazia? Cosa c’è da trattare, mediare, concordare?  Con dall’altra parte antropofagi e narcomafiosi che campano di armi, droga e guerre? Un’altra Oslo-capestro tipo palestinesi? Qui c’è un mostro a cui si devono tagliare le zanne affondate nella vittima. Punto. 

Qualche strappo nei travestimenti democratici delle perenni oligarchie l’hanno prodotto le lotte operaie, studentesche, le guerre di liberazione. Mai non-violente. Come non guadagna un rigo sui media (s’è visto il 16 gennaio) e nella storia e non incide un graffio sulla protervia del potere, qualsiasi corteo che non rivendichi con la forza il diritto alla piazza e alla contestazione. Provate a immaginare lo scombussolamento degli assetti del potere culturale e politico senza la forza dei movimenti del ’68. O l’epifania di uno Tsipras (per quanto, ahi-Grecia!, infiltrato e traditore) e la stravittoria referendaria da far tremare gli euroboia, senza quattro anni di scontri di popolo contro i gendarmi dei proconsoli di BCE, FMI e UE. O il ritiro dell’esercito britannico dall’Irlanda del Nord senza l’IRA. O un’attenzione del mondo sull’olocausto palestinese senza le Intifade. Hanno portato a poco, a niente? Nell’immediato. Ma ti hanno mantenuto in piedi! Si potrebbe continuare con gli esempi, a partire dalla presa della Bastiglia, o dalla Repubblica Romana, ma non serve a convincere nessun non-violento. Sapete perché? Perché la non-violenza è un’assicurazione dei beni e sulla vita. Tutto lì, al di là delle buone intenzioni.



Tutti uguali, coscienza a posto.
C’è chi è arrivato nel corteo proclamando “Tutti i governi sono criminali”. Mosca come Washington. Riyad come Damasco. Altri giuravano “Guerra no, mai – senza se e senza ma, bombardamenti no, mai - senza se e senza ma”. Gente con un acuto senso delle proporzioni e degli eccessi, sentenziava “25 anni di guerra bastano”. Bastano a chi? Pensate che cazzata: con uno, due, dieci anni di guerra si sarebbe potuto convivere? Ed ecco che, col discorso di “nessun bombardamento mai”, dopo lo scontato guerrafondaio Usa, s’è messo nel sacco anche quello russo. L’imperialismo si risente, ma lo conforta l’equiparazione. Ci lascia poi solo la scelta tra ottusità, ignoranza e malafede chi, tra pseudotrotzkisti e pacifinti, fa scempio della realtà oggettiva cianciando di “scontri tra potenze” e di “opposti imperialismi”, mettendo sullo stesso piano la mamma di Haensel e Gretel e i bambini che vuole infornare.Perso nella nebbia del fondamentalismo pacifista, il senso delle cose e la possibilità di uscirne bene, con giustizia. Visto che vengono intrecciati senza più  possibilità di distinguerli, carnefici e vittime. Chi bombarda, correndo in soccorso all’aggredito, per salvare integrità, sovranità, diritto internazionale, autodeterminazione, storia, presente, futuro, vita. E chi dalla scena del mondo vuole eliminare queste cose.

Nei proclami pacifisti e non-violenti si obietta alla guerra tout court, compresa quella dei resistenti alle aggressioni e si finisce, che lo si voglia o no, col delegittimare, se non criminalizzare, chi spara per non farsi sparare, lui insieme a madri, padri, figli, patria. Oggi siriani, iracheni, afghani, yemeniti, somali, libici.  O africani sub sahariani, sotto lo scudiscio del neocolonialismo armato francese che, anch’esso, utilizza i jihadisti per lastricare la via allo stivale della Legione Straniera. Ieri le brigate Garibaldi. O Beppe Fenoglio. O i Fratelli Cervi. O Franco Serantini.

Un Ponte per…dove?
Chi sfila perché così usava, così fanno i buoni e bravi e così ci si sente a posto. Chi marcia perchè contro il nemico tocca marciare. E chi ci marcia. Ho partecipato a due viaggi organizzati di “Un Ponte per…” in Iraq, al tempo dell’embargo, e a uno in Serbia. Storico presidente Fabio Alberti (consigliere regionale del PRC e manifestante con i ratti contro Assad), oggi lo presiede una Martina Pignatti Morano. Allora non ci si sarebbe sognati di dire una anche vaga parola di critica a Saddam o Milosevic. Anzi, avendo il monopolio dei tour politico-culturali, ci si guadagnava. Al punto da finire in una brutta polemica su come fossero stati adoperati certi fondi. Ai viaggiatori si accompagnavano scatoloni di medicinali e quaderni per le scuole. Niente male. Poi le cose cambiarono e pure il Ponte per. E sui corpi dei vinti si accodò al coro delle contumelie contro i leader caduti e contro chi si ostinava a resistere, mentre prese a far comunella con la “società civile” collaborazionista.  Molto male, anzi  miserevole.

Ong di scarsa rilevanza, ma epitome del pacifismo di cui vado parlando, si guadagnò ampia notorietà con la storia delle “due Simone”. Due cooperanti, secondo non verificate fonti giornalistiche stipendiate a 8000 euro mensili da questa Ong che si diceva poverissima, nel settembre 2004 rapite nella zona di Baghdad più controllata dagli occupanti. Rapite da chi non s’è mai voluto capire.Tenute nascoste per tre settimane e poi riapparse. Il deus ex machina finale era degno del più scrauso regista di atellane e fescennini. Con lo staff berlusconiano, il capo berlusconide della Croce Rossa e decine di telecamere schierati come a una passerella di star sulla Croisette, si vedono le due ragazze incappucciate caracollare in pieno deserto, avvicinarsi e solo allora togliersi il capuccio.  Standing ovation. Scena costruita a sfida del più acuto degli imbarazzi. Oggi questo ponticello rotante si presenta al corteo con dichiarazioni tutte mutuate dalla propaganda di chi doveva dotarsi di alibi per la distruzione dell’Iraq.  Notarella: una delle Simona, la Pari, s’era adoperata in Kosovo per “Save the children”, l’organizzazione “umanitaria” che per lubrificare la guerra alla Libia ci aveva raccontato di un Gheddafi fornitore di Viagra ai suoi soldati perché stuprassero bambini e le loro madri, magari davanti ai rispettivi padri e mariti. Notevole curriculum.…


Gli americani ‘liberarono’ il Kuweit” (storica provincia sottratta all’Iraq dai britannici e per questo non riconosciuta come Stato se non 40 anni dopo), ma, sprovveduti, “lasciarono al comando Saddam che ne approfittò per far fuori 200mila sciti e curdi”. “Migliaia di soldati iracheni scelsero la diserzione e si rivoltarono contro Saddam” (evidentemente risentiti dal fatto che l’ONU, nel 1990, aveva riconosciuto all’Iraq il più alto indice di sviluppo umano del Medioriente). Ma forse l’analista militare s’è confusa con i 100mila soldati seppeliti dai tank Usa nelle loro trincee. Quanto alla Libia, c’è da lamentarsi che non esista ancora “un’alternativa funzionale e democratica” (implicito: alla dittatura di Gheddafi). Ovvio che “l’Iraq ha innanzitutto bisogno di aiuti umanitari”, adeguatamente sovvenzionando le Ong che se ne fanno carico (altrimenti che ci sta a fare il Ponte?), mica di sostegno alla lotta di liberazione da Isis e predoni curdi. Per carità, pace e coesistenza! Rifornimenti aerei della Coalizione all’Isis, denunciati con mille prove, è roba umanitaria. Ma armi a Baghdad per riunificare il paese mai!. Non sarebbe non-violento.

C’è chi non fa i nomi. E chi li fa.
E così quattro amici del giaguaro riescono a convogliare nelle manifestazioni un sacco di utili idioti, o di semplici disinformati, e di farsene scudo per sopperire alla propria inconsistenza numerica e ambiguità politica. E’ la tecnica della pianta saprofita che si attorciglia attorno all’albero per soffocarlo. Non che la scarsità quantitativa significhi sempre fragilità qualitativa. Anzi, di questi tempi è già tanto se bastano le mani a reggere uno striscione giusto. Come nel caso romano dove si diceva “NATO=GUERRA E TERRORISMO – FUORI DALLA NATO FUORI DALLA GUERRA”. Dove si ricordava ai dimentichini che quelli che fanno la guerra sono gli stessi che fanno il terrorismo. O in quello analogo milanese del Comitato contro la guerra. Nessun dubbio, anche, sulla sintonia tra Roma, Sigonella e Vicenza, per  una piattaforma che diceva pane al pane e vino al vino, facendo nomi e cognomi. Come, va detto, li faceva anche lo spezzone degli USB in testa al corteo.


Già, perché nomi e cognomi sono quelli la cui assenza è pervicacemente e saggiamente coltivata da pacifisti e non-violenti (e lo dico esonerando alcuni miei amici pacifisti che con me hanno vissuto l’Iraq, la Serbia, la Libia, la Siria e ne hanno tratto introspezioni ed estrospezioni ben più mature dei loro affini rimasti al calduccio. Penso a Marinella, penso a Enzo). Che lo sappiano o no, la non-violenza e certo pacifismo applicati indistintamente a qualsiasi situazione, consciamente o inconsciamente, garantiscono sicurezza personale rispetto al monopolio statale e imperiale della violenza. Monopolio nel cui statuto sta l’eliminazione giuridica e, se necessario, anche fisica, di chi lo contesta. Ben sapendo questo, Bertinotti, da rivoluzionario scassa-sistema, si è addirittura arrampicato fino alla terza carica dello Stato installandosi tra i padri nobili della Repubblica  mafio-massonico-pontificia-atlantica.

Anonimizzare, livellare ogni cosa e sistemare tutti sullo stesso banco degli imputati, assimilare vittime a carnefici. E’ il regalo dei né-né all’imperialismo e ai violenti per scelta. E’ la coltellata alla schiena dei violenti per necessità. E’ una tecnica che ti evita fastidi, visto che entrambi le parti in conflitto si consolano del fatto che hai incriminato anche l’altra. Non sei un nemico assoluto. Sei compatibile. Noi siamo potenti, i più potenti, ci possiamo permettere che ci critichi. Basta che non ti schieri. Criticando il nostro nemico ci dai una mano, più di quanto non ci danneggi. Tanto più se non fai nomi.

Dire solo “pace”, punto, vuol dire certamente niente bombe e botte. Ma evita di dire anche giustizia, no a sanzioni (chi ha mai dimostrato contro le sanzioni all’Iran?), destabilizzazioni, sabotaggi, rivoluzioni colorate, quinte colonne all’insegna dei “diritti umani”, mestatori come Amnesty e HRW. Evita soprattutto di schierarsi da una parte, quella che ha ragione, quella aggredita. E lo evita reggendo la coda a coloro che ne demonizzano i leader, senza riguardi alla volontà popolare, alle condizioni storiche e culturali, agli stati di necessità. Son cose che decidiamo noi. Dire solo pace e non dire “fuori dalla Nato” è come compiangere i rifugiati senza menzionare chi sta spopolando intenzionalmente la loro terra.


AssassiNATO
Dire Nato vuol dire Obama, Renzi, Clinton, Bush, Reagan, Nixon e giù giù fino al 1949, quando agli europei stremati, dopo lo zuccherino del Piano Marshall, si impose il collare del Patto Atlantico. Dire Nato non platonicamente comporta stare con chi di Nato soffre e muore. Compresi noi. Qualcuno dei miei coetanei, oltre a storici “revisionisti”, si ricorderà di quando nelle strade di tutto il mondo risuonava: “Vietcong vince perché spara”, “Giap Giap Giap –Ho Chi Minh”, “Fe fe fe –Fedayin” , “Patria o muerte”. Eravamo contro la Nato e, di conseguenza, con l’Irlanda del Nord, il Vietnam, Cuba, Palestina, l’Algeria. Eravamo schierati. Oggi noi altri che osiamo dirci a fianco della Siria di Assad, della Libia di Gheddafi, della Russia di Putin, del Venezuela di Chavez-Maduro, ci muoviamo in un clima di rampogne e dissociazioni. I non-violenti e diritto-umanisti prendono le distanze. Distanze misurate col metro del menzognificio imperialista. E dunque dalla Nato.



La non-violenza, quando non è la mannaia, avvolta nel velluto, che disarma chi si difende da Golìa, è spesso il riflesso piccolo-borghese, come usava dire, della paura per l’ego. Chi sta col “nemico”, con la parte “sbagliata”, si sa, rischia discredito, vituperio, la libertà d’espressione,  l’ostracismo, a volte la libertà fisica e, se capita, la pelle. Ma nella non-violenza ci può essere anche la paura dell’ego, nella sua componente Mr.Hyde. Se ne ha un’idea quando traspare nella violenza degli anatemi lanciati contro chi non-violento non è. Alla resa dei conti, saranno costoro a doversi chiedere in che modo abbiano aiutato o ostacolato una marcia che ha in fondo la fine dell’umanità.

Gay fa fico e polonio fa Putin

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Una mia foto di Bloody Sunday sulla facciata della prima casa di Derry.

Altro che le sette piaghe che si abbatterono sul faraone per castigarlo, secondo l’invenzione biblica, della persecuzione del popolo ebraico (che da quella parti non c’era mai stato, ma che già allora andava costruendosi sul concetto di persecuzione e liberazione). Le sette piaghe, tra aerei a lui abbattuti o il cui abbattimento è a lui attribuito, denunce di doping, poi allargatesi all’universo mondo, demonizzazione in quanto omofobo, mandante di omicidi di giornalisti, massacratore di civili in Siria e via fantasticando, il presidente russo le ha da tempo superate. E chi non riesce a farsi una ragione di non essere più l’unico decisore delle sorti del mondo e, anzi, di essersi visto messo dietro la lavagna da un maestro che la sa e la fa infinitamente più lunga, sta dando fuori di matto. Perché per arrivare, dopo 10 anni di giri intorno alla faccenda, a fare di Putin il mandante “probabile” dell’omicidio al Polonio 10 del dissidente Litvinenko, bisogna aver pensato che l’opinione pubblica mondiale è rimbecillita al punto da accettare l’aberrazione giuridica di una sentenza di colpa emessa per “probabilità”. E nel caso dei media italiani, in questo succoso caso capitanati dalla lobby ebraica, il pensiero è fondato. A dispetto della risate omeriche che nei tempi dei tempi si perpetueranno di meridiano in meridiano sulla creatività dei magistrati britannici.

Sul “Fatto Quotidiano” che, rispetto alla stampa di regime fa eccezione positiva fino a quando non si arriva a pagina 18 “Esteri”, dove riesca a scalzare dallo strapuntino Cia-Mossad perfino i Molinari (La Stampa) e i Calabresi (Repubblica), si scatena l’addetto alla Russia di ogni infamia, Leonardo Coen. Giovinetto di buone speranze quando si presentò a “Lotta Continua”, di cui ero direttore, per fare un po’ di pratica. La fece così bene che, nel suo inebriamento per il giudice che ha condotto l’inchiesta, Robert Owen, scrive Sir Owen, ignorando che il titolo di Sir si congiunge esclusivamente con il nome del baronetto: Sir Robert. 

Dunque il losco personaggio,  spia pro-Occidente cara al venditore di tappeti e consumatore parossistico di vodka, Eltsin, è morto di polonio radiattivo dopo aver preso il tè con due agenti russi. Onde per cui sono loro che glie l’hanno messo nel tè e si sono poi dileguati. Putin che non li estrada, ne è evidentemente il mandante. Onde per cui: sanzioni. Altre sanzioni, visto che quelle inflitte finora non lo hanno ridotto alla ragione, non sono servite ad evitare la debacle occidentale in Medioriente, ma hanno rotto pesantemente le palle agli esportatori europei. Per placarne rabbia e frustrazione toccava aumentare il tasso di mostruosità dello “zar”. Incombe pur sempre, sugli Usa in crisi di credibilità oltreche di funzionalità, il terrore che quest’Europa, così intimamente appiccicata all’Asia e, dunque, alla Russia e poi alla Cina, senza neanche un mare di mezzo e con un reticolato crescente di Vie della Seta, possa, seppure per mere ragioni di sopravvivenza, tornare a rivolgersi al vicino, partner naturale e proficuo, oltreché meno ingombrante e prevaricatore.

Al collega (si fa per dire) Coen del “Fatto” fa difetto la memoria. Ai tempi in cui ambiva a esprmersi sul quotidiano “Lotta Continua”, io ero impegnato, unico allora nella stampa internazionale, a poter raccontare quanto avevo visto, unico giornalista straniero sul posto perchè sfuggito alle barriere “No Press” britanniche, il 30 gennaio 1972. Era il  “Bloody Sunday”, quando i parà di Sua Maestà uccisero a freddo a Derry, Irlanda del Nord,14 civili inermi (e mi spararono contro tre volte). Ne seguì un’inchiesta affidata, anche allora, a un prestigioso magistrato inglese, Lord Widgery.

Jack Duddy, 16 anni, prima vittima di Bloody Sunday (foto F.Grimaldi)

Venni chiamato a testimoniare solo dopo che la stampa di Dublino avva denunciato lo scandalo della mancata convocazione dell’unico giornalista straniero sul posto. Portai con me una novantina di bossoli raccolti da terra che dimostravano, inconfutabilmente, come gli spari provenissero tutti dai fucili pesanti “Sterling” del 1° Battaglione Paracadutisti. Corpo del reato che Widgery, astutamente, mi intimò di riportare via, senza che fosse esaminato. Né volle esaminare le mie foto delle esecuzioni, quella dei tre colpi tirati contro la mia finestra, le registrazioni della radio militare che ordinava la mia cattura “con qualsiasi mezzo”, né ascoltare la registrazione dell’intera strage. Ne risultò un’assoluzione degli assassini e, ovviamente, del governo mandante di Londra. Ma anche uno scandalo e un ridicolo internazionali che seppellirono l’alto magistrato con tutta la sua inchiesta. Londra fu costretta ad avviarne un’altra, quella di Lord Saville, meno incresciosa, in cui pure testimoniai e che, perlomeno, giunse ad attribuire la responsabilità a qualche testa matta tra gli ufficiali dell’esercito occupante. Ora si sta avviando, sotto pressione dell’indomabile popolo di Derry, una terza inchiesta, a cui sono stato convocato un’altra volta. E’ condotta dalla polizia nordirlandese. 200 soldati britannici convocati si rifiutano di testimoniare. Per ora uno solo è stato incriminato. In ogni caso Londra se la caverà. Come grazie al, da Coen venerato per il suo coraggio, “Sir Owen”.

Prima False Flag di fine secolo
Al Coen e agli altri corifei della giustizia britannica raccomando, inutilmente è ovvio, un altro ricordo. Quello di Lockerbie. 21 dicembre 1988, esplode  nel cielo della Scozia il volo Pan Am 103, 270 morti. Chi può essre il colpevole? Ma naturalmente solo lui, Muammar Gheddafi, da tempo sotto schiaffo  per le sue malefatte anti-occidentali, antidemocratiche, anti-multinazionali, anti-israeliane, anti-satrapi del Golfo. Tanto che, nell’86, Reagan ne aveva addirittura bombardato la casa, uccidendone una figlia. E subito si individuarono i due sicari: agenti libici, senza il minimo dubbio. Londra ne chiese l’estradizione. Fiducioso nella giustizia britannica, maestra delle genti, Gheddafi acconsentì, anche sotto la pressione delle micidiali sanzioni-ricatto inflitte da Usa e UE. Ma uno fu subito rispedito indietro perché troppo poco associabile al delitto. L’altro, Ali Al Megrahi, proclamatosi innocente per tutta la durata dell’infame montatura, venne condannato al carcere a vita da una corte scozzese in Olanda (?). Dopo corsi e ricorsi, nel 2009, fatti otto anni e mezzo, fu rilasciato da un giudice scozzese. Si disse “per motivi umanitari”. Ma passò alla storia – e non negli appunti di Coen e affini - la dichiarazione del magistrato che definì  la prima sentenza “un travestimento scandaloso della giustizia”.

Al Megrahi morì di cancro poco dopo, ma fece in tempo a vedere i britannici distruggere il suo paese, come avevano distrutto la sua vita. Ci consoliamo della certezza che con la Russia non sarà così. Intanto la moglie del fuoruscito si è messa a strepitare che all’infame assassino vengano inflitte altre sanzioni, oltre a quelle già comminategli dopo il colpo di Stato Nato-nazista in Ucraina. Di queste sanzioni, volute da una Washington in pieno marasma geopolitico e che mena calci all’impazzata per ogni dove e dalla sua appendice oltremanica, si dovrà ora incaricare anche l’Europa. Ancora una volta tranciandosi le gonadi. Come va facendo da Belgrado in poi.


 Frocio e stronzo pari son
Quell’eterosessuale appassionato che sono s’è sentito dare del frocio (oltreché del pezzo di merda, del cornuto, del testa di cazzo, del figlio di zoccola, et cetera), l’ultima volta pochi giorni fa, da un energumeno alticcio che sbraitava dall’altezza sicura del suo balcone. Avevo commesso il delitto di lesa proprietà privata legando per pochi minuti il bassotto Ernesto alla ringhiera della scala del condominio. Palazzo nel quale si trova anche uno studio di fisioterapia da me visitato. L’insulto fondato sulla specificità sessuale nel mio caso è meno grave perché di quella non sono rappresentante. Le sillabe vagano per l’aria e non colpiscono. Colpisce però l’intenzione. Frocio e stronzo, nel caso, pari erano 

Non lo racconto per pormi sullo stesso piano dell’allenatore-martire dell’Inter, ingiuriato con quel termine da un bifolco toscano, straordinario maestro della rotondologia, ma a cui le altezze vertiginose a cui  i meriti suoi e di Higuain lo hanno proiettato devono aver dato alla testa. Lo racconto perché mi colloca su un piano che è affollato da diversi milioni di italiani i quali, specie nel traffico, si sono tutti scambiati quell’epiteto e tutti i suoi surrogati regionali, probabilmente a partire dall’età della ragione e nei secoli dei secoli. Tanto più ora, nel caso dei maschilisti e omofobi che si vedono costretti a confrontarsi con una società dove contradditoriamente, in parallelo con Giovanardi e altri spiaggiati del cattolicesimo ultrà, la diversità sessuale è diventata di gran moda in politica, nei salotti, nella cultura, nel cinema. Insomma gay è anche fico.

Perfino, ci rivela il “manifesto”, il più recente ed eccellente  testimonial della categoria GLBTQ, nientemeno che allenatore di uno squadrone storico, da sempre qualificato per il primato in serie A, aveva fatto contundente uso dell’invettiva, addirittura potenziata in “frocio di merda” all’indirizzo del giornalista Alessio Da Ronchi della Gazzetta dello Sport. Il reo aveva diffuso al pubblico un litigio dell’allenatore con il giocatore Amaral, dipanatosi lungo fraseggi che deprecavano la presunta identità sessuale del brasiliano. Non era successo niente più di qualche mormorio gossiparo ai bordi del campo e tra gli addetti alla sfera rotolante.

E allora perché questo sollevar di scudi fino al settimo cielo dell’indignazione, questo invocare castighi divini e provvedimenti come neanche contro il Putin della presunta omofobia (del tutto inventata, se si guarda la legge in oggetto), questa graticola rovente su quale il nuovo San Lorenzo è stato rosolato?  A male parole, spesso schifosamente razziste (ma è acqua calda per arbitri, società e Federazione), ci si prende sistematicamente sulle gradinate, ai bordi del campo, negli spogliatoi, con l’arbitro, con l’automobilista che ti ha preceduto nel parcheggio, col compagno che non ti fa copiare il compito, o che, controsenso dei controsensi, ti ha fregato la ragazza. E Mancini non ha nemmeno fatto outing, come la rumoreggiante comunità GLBTQ vanterebbe. Anzi non pare nemmeno potersi ascrivere a nessuna delle definizioni che formano l’acronimo.


Devo ammettere che mi ci sono voluti molti anni e molte conoscenze preziose perché superassi, non tanto uno Zeitgeist  allora sonoramente intollerante verso i “diversi”, detti “invertiti” o “pederasti”, “ricchioni” o, in Liguria, “bulici”, quanto la diffidenza suscitatami dagli innumerevoli e insidiosi approcci da cui mi ero dovuto difendere da adolescente. Un età sotto tiro da parte di interessati di ogni genere, anche perché più suscettibile di subire influenze faste e nefaste. E ogni minoranza discriminata si salvaguarda con il proselitismo. Ammetto anche che le immagini dei Gay Pride mi risultano, e non per l'esibita "anormalità", un insostenibile offesa al buon gusto, a qualsiasi criterio di eleganza, di una carica provocatoria irrimediabilmente a salve.

E’ che l’omosessualità, unendo gli affiliati contro soprusi e discriminazioni secolari, necessariamente è diventata categoria politica. Come fossero  falegnami,  o astronomi. E come tale, essendo questa l’usanza dei tempi, s’è fatta lobby. Per la giusta rivendicazione dei suoi diritti (che io sostengo a spada sguainata, per quanto preferisca riservare alla crescita e all’iniziazione dei bambini la bipolarità maschio-femmina). E una lobby ambisce a spazi, una categoria, legittima o criminale, si sostiene attraverso il reciproco aiuto tra i suoi membri (absit iniuria verbis). Niente di male, finchè tale solidarietà è finalizzata alla buona causa della propria legittimazione e dei propri diritti, o ad altre buone cause, magari come quella che brillava di forte luce propria su uno striscione nel corteo anti-guerra e anti-Nato del 16 gennaio e che schierava le lesbiche contro i crimini dei guerrafondai.

Forse, a partire dai Gay Pride, bisognerebbe  vedere un po’ come si schierano i GLBTQ sulle grandi questioni da cui dipendono la libertà, i diritti, la stessa sopravvivenza di tutti noi, etero, omo, fantasiosi vari. Forse bisognerebbe capire quale battaglia è genuina (immagino che per i più lo siano tutte), e quale viene utilizzata, anche a insaputa dei suoi protagonisti, come arma di distrazione di massa. Non può non colpire che è proprio nei governi e Stati che hanno più scheletri negli armadi, dove avanzano diritti civili come i matrimoni gay, gli uteri in affitto, le coppie di fatto di qualsiasi combinazione. Il che nulla toglie alla validità delle battaglie per questi diritti.. Avanzano marciando  su devastazione sociale, economica, poliziesca e guerresca. Non riesco a festeggiare quando Obama illumina di plauso il matrimonio tra due uomini, dietro ai quali si allarga all’infinito l’ombra che occulta genocidi da fame e da bombe.

E, nel nostro piccolo, uno come Cecchi Paone, per esempio, che si avventa lancia in resta sull’improvvido Sarri, ma sta pervicacemente dalla parte dei sociocidi e dei farabutti politici, primi responsabili delle sventure, ingiustizie e sofferenze di tutti, a chiunque specialità appartengano, non viene nobilitato dall’etichetta di omosessuale.  O, peggio perché sprofondato nel cinico e nel grottesco, quel Vladimir Luxuria che fa il coglionazzo nell’Isola dei Famosi, in Honduras, paese appena ferito a morte da un golpe amerikano e dove in quei giorni è stato ammazzato il leader del movimento gay e gli oppositori di ogni tipo vengono fatti fuori in massa. Ricordate lo sciagurato Sansonetti, direttore di “Liberazione”, che, con riferimento all’oscena trasmissione, in prima pagina strepita “Forza Vladimir!”? Non poteva il personaggetto mancare all’appuntamento delle Olimpiadi invernali russe a Sochi, per contribuire alla campagna russofoba della Cia. Se qualcuno, e non dovrebbe, gli dicesse “frocio”, intenderebbe “stronzo”, come penso abbia inteso quel signore sul balcone e anche l’allenatore del Napoli. Insomma i diritti, o sono intrecciati e indissolubili tutti, o rischiano di favorire il re di Prussia.

Due giornate di sospensione bastano. Ma diamole a chiunque non abbia l’avvertenza di ripulire il proprio vocabolario al passo con lo Zeitgeist.

Article 1

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ASSASSINO A CHI? MEMORIA DI CHE?
A margine, l’Isis rivisitato


Iran, vituperio delle genti e della memoria
Preceduto e accompagnato, dall’arrivo alla partenza, dalla campagna d’ordinanza di vituperi e diffamazioni, ordinata dalla coppia israelosaudita, il presidente iraniano, Hassan Rouhani, ha suscitato l’entusiasmo di coloro che le sue aperture all’Occidente faranno partecipare al banchetto offerto da un mercato di 80 milioni di dinamicissimi abitanti. Ho fatto esperienza diretta e recente dell’Iran (vedi il docufilm “Target Iran”) e dubito che quel popolo intelligente, progredito e fiero, abbia accolto con grande soddisfazione tali “aperture”. Con Ahmadinejad, il governo aveva promosso le classi popolari, rafforzato l’antimperialismo, sviluppato infrastrutture e tecnologia, tagliato le unghie ai ceti famelici, quelli che nel 2009, con la famigerata “rivoluzione colorata”, avevano minacciato di riportare il paese ai nefasti filoccidentali dello Shah, il più spietato dei tiranni, e il più amato in Occidente. Il cedimento al ricatto delle sanzioni che, nelle promesse di Obama e Hillary Clinton, dovranno ritornare non appena l’Iran sgarri dalla retta via “moderata” e inoffensiva (e in parte sono già state rinnovate col pretesto dei missili balistici), ha privato il paese della tecnologia nucleare. Tecnologia rigorosamente civile, con l’arricchimento dell’uranio al 20% (ora ridotto all’inutile 3%), essenziale per energia e medicina, ma assolutamente insufficiente per l’uso militare. Che del resto l’Iran non aveva mai contemplato, avendo firmato il trattato di Non Proliferazione Nucleare (diversamente dall’ipernuclearizzato Israele) ed emesso fatwe contro l’arma atomica.


Il lato positivo è che, per poche ore, l’Italia si è potuta risparmiare l’annuale martellamento di tutte le lobby atlantico-sioniste sulla Giornata della Memoria, con la parossistica strumentalizzazione dell’Olocausto ai soliti fini del tutto impropri (vedi Norman Finkelstein, figlio di genitori periti nei campi, “L’Industria dell’Olocausto”) della distrazione di massa da eventi recenti, comprovati e di una letalità più estesa e in buona parte attribuibili ai figli e nipoti di vittime tramutate in paraventi. Palazzo Chigi, abitato, oltreche da malviventi, da idioti e ignoranti  che non hanno mai visitato né Persepoli, nè musei e mostre d’arte a Tehran, strutture tutte generose di nudi, ha ordinato  di rinchiudere in scafandri di cartone i nostri ignudi di marmo perchè non offendessero il medievale senso del pudore attribuito all’ospite persiano, hanno versato cianuro sulla benzina della lobby. Che ha potuto isterizzare i suoi strepiti con l’accusa ai codardi di aver steso la civiltà occidentale.a tappeto sotto i calzari del levantino oscurantista e ottenebrato. Potendo ancora una volta oscurare sotto ignoranza e diffamazione eurocentrica il dato, evidente a chiunque veda quel paese come l’ho visto io, che l’Iran rispetta i diritti umani e la democrazia molto, ma molto meglio e censura molto meno (vedi il premiatissimo cinema iraniano, spesso assai critico) di questo ipocrita, truffaldino, bigotto e poliziesco Occidente cristiano. Di cui si è fatto ottuso portavoce Marco Travaglio nell’editoriale sul “Fatto” del 28 gennaio, quando, tramutatosi in un criptosalvini, lui che si specializza nelle sacrosante scudisciate ai leccapiedi dei potenti renziani, ha leccato i piedi e tutto il resto ai più ottenebrati e disonesti divulgatori di falsità e pregiudizi sui paesi invisi alle cosche giudaico-cristiane del basso impero occidentale in atto.

Fosse solo questo. La Comunità ebraica di Roma si è indignata anche per la coincidenza temporale della visita dell’infame negazionista (Rouhani non ha mai negato nulla) e pianificatore della distruzione di Israele (mai pianificata. Semmai Ahmadinejad aveva auspicato la fine del regime razzista, esclusivista e genocida, non la distruzione del popolo ebraico) con la concomitante (non proprio, Rouhani era già partito, ma tutto fa brodo) giornata della memoria che ricorda lo sterminio del popolo ebraico. “E’ intollerabile che, mentre un intero apparato è impegnato a mantenere la memoria della Shoah, questa viene passata in seconda scena dalla celebrazione dei negazionisti” (Riccardi Segni, rabbino capo). Con il che, oltre a rinnovare l’accusa mortale di negazionismo, atta a dare forza all’impulso, anche in Italia, a una legge che metta la mordacchia a qualsiasi ricerca storica non conforme, vale a dire a qualsiasi ricerca storica tout court, e ne sbatta in galera i cultori, la lobby inavvertitamente scopre il suo irato risentimento per una pur breve interruzione di una sua, di manovre.
Donne isolate dietro la rete di separazione. Sinagoga, non moschea.

Che è quella di far scomparire con il tambureggiamento sulla Shoah, avvenimento unico nella storia fin dall’ Homo Erectus, alcune cose tanto infime, quanto imbarazzanti. Che so, il settantennale genocidio strisciante di un popolo espropriato sulla sua terra usurpata, sublimatosi nelle ultime settimane nell’assassinio di quasi 200 ragazzi palestinesi perché, da morti, gli hanno trovato un coltello addosso (in Colombia, li chiamano “falsi positivi”, quando ai contadini uccisi mettono accanto un’arma); il tiro a tre Obama-Netaniahu-Saud che va facendo passare il carro carico di jihadisti sui corpi straziati di Libia, Siria, Iraq, Yemen, Somalia, Afghanistan, paesi africani vari; l’impennata militarista di Obama che rioccupa con migliaia di soldati Afghanistan e Iraq e spedisce Forze Speciali, eufemismo per “squadroni della morte” a sostegno dei mercenari Nusra e Isis in fuga davanti all’avanzata delle forze patriottiche irachene e siriane sostenute dai russi. L’infanticidio continuato a Gaza. L’elenco delle nefandezze da nascondere potrebbe continuare da qui a dieci post successivi.

Ma è interessante anche notare come l’arrivo del leader iraniano e la celebrazione sionista dell’unica memoria degna di essere celebrata, siano stati preceduti ed affiancati dalla campagna che marchia di assassino sia Rouhani (nonostante tutta la sua buona volontà, pur sempre poderoso rivale e concorrente in Medioriente dei gemelli democratici saudisraeliani), sia Vladimir Putin. Si tratta di bombe assordanti, di sostanza nulla, ma di grande effetto acustico. Putin “probabile” assassino di Litvinenko secondo l’alto magistrato Sir Owen che sentenzia colpevolezze in base alla sua idea di “probabilità”, ripresa con foga dalla lobby, e Rouhani e tutto l’Iran musulmano (ma scita, di quelli cattivi)  forsennato esecutore di pene capitali. La fonte delle notizia sul migliaio di giustiziati dal governo Rouhani in un anno è un’oscura Ong iraniana dei diritti umani, subito rilanciata al diapason tonitruante da Amnesty International, con l’aggiunta dell’orripilante esecuzione anche di bambini di 9 anni. E così nessuno ha più fiatato, o saputo, dei 57 impiccati dall’amica Arabia Saudita nei primi 20 giorni di gennaio (che, se tanto mi da tanto, il primato mondiale a dicembre non glielo leva nessuno). Oppure degli 8000 giustiziati in tre mesi dai sauditi in Yemen a forza di bombe teledirette dagli Usa e fornite da Roma.

Assassini probabili e assassini indiscutibili
Putin, intollerabile vincitore in Siria e che rimette in sesto un po’ di diritto internazionale, serve a nascondere una manina israelo-italiana nella faccenda dello spione russo al servizio dell’intelligence britannica. Gli ultimi a pasteggiare con Litvinenko non furono due presunti agenti russi, bensì il noto ma sbianchettato pregiudicato Mario Scaramella, che nell’occasione, prudentemente, non toccò né cibo né bevanda. Scaramella, faccendiere attivo in Israele e con la mafia ebraica, condannato per traffico d’armi e attivissimo in quello di sostanze nucleari, è anche il provocatore che imbastì la famosa farsa dell’inchiesta Mitrokhin, con cui si volle attribuire al povero Prodi, militante di tutt’altra affiliazione, la qualifica di spia del KGB. A forza di maneggiare polonio, ne rimase leggermente intossicato anche lui, ma si riprese subito. E tracce di polonio si trovarono sull’aereo British Airways su cui Scaramella andava e veniva da Israele. Il che non impedisce al superlobbista Furio Colombo di omaggiare, insieme al discepolo Leonardo Coen, il governo inglese “che ha fatto luce sulla tenebrosa storia”.


 Ma il discorso va allargato. Vogliamo parlare di assassini? Ma che figura ci fanno Rouhani, che giustizierebbe adulteri e Putin, che ammazzerebbe giornalisti, davanti a un primatista assoluto del masskilleraggio come Obama, che non si preoccupa neanche di dare veste giudiziaria ai suoi omicidi? E i cui omicidi non sono “probabili”, come quel pagliaccio di giudice inglese ha definito quello presunto di Litvinenko, ma certi ed eseguiti con protervia illimitata davanti agli occhi del mondo. Cifre rispettose dell’irritazione amerikana parlano di appena 2000 ammazzati dai droni tra Pakistan e Afghanistan, di cui il 90% riconosciuto di civili. buona parte partecipanti a funerali e matrimoni, perlopiù frantumati dal secondo missile, destinato ai soccorritori. Cifre ammesse dallo stesso Osservatorio dei diritti umani in Siria, messo su dall’intelligence britannico, parlano di quasi 300mila siriani uccisi da quando Nato, Israele e Golfo hanno deciso di far fuori la Siria. E dovremmo mettere sul conto del presidente dell’“Yes we can” (possiamo ammazzare chi ci pare) anche qualche centinaio di migliaia tra Iraq, Libia, Yemen, Somalia. Tutti con droni, bombardieri e Forze Speciali e senza processi, accuse, avvocati, giudici. Nessun presidente degli Stati Uniti, paese pur votato alle aggressioni belliche e ai genocidi dall’inizio della sua vicenda, si era mai dato una licenza di uccidere di tale portata, qualitativa e quantitativa. E ci deve pure provare gusto, l’uomo del rinnovamento democratico e pacifista, l’uomo dei diritti umani da far piovere ovunque, se è vero che ogni settimana riunisce nello studio ovale tutti i suoi servizi segreti e decide personalmente quali dei sospetti sottopostigli debba essere tolto di mezzo.

 Leader dell’Irgun, inventori del terrorismo

Putin e Rouhani? Ma di cosa stiamo parlando?  Li chiamano assassini? Anzi, Putin è anche corrotto. Secondo il regime più corrotto del mondo, è, nelle parole alate del sottosegretario al Tesoro Usa, l’immancabile israelita Szubin, il più corrotto di tutti i corrotti. Tanto è vero che ha cacciato a pedate gentiluomini dabbene come gli oligarchi Berezkovsky, Khodarkovsky, Abramovic (tutti ebrei, guarda un po’). Eltsin, al confronto, era Catone il censore e, dunque, intimo del regime Usa. Davanti a tanta nequizia, si sono consolati i cittadini Usa che, al 75%, avevano giudicato il proprio governo pervaso e infettato da corruzione.  Ma davvero hanno la faccia come il culo. E’ come se Torquemada desse dell’assassino a Giordano Bruno. E non abbiamo neppure parlato di Netaniahu, o Tzipi Livni, col loro fosforo bianco e le loro SS su Gaza, o tutti i loro predecessori dal 1948, ognuno indefettibilmente killer di massa di prim’ordine. Rischieremmo di mettere in ombra perfino Obama, o la Clinton che, fatti i suoi 100mila morti in Libia, va in estasi mistico-fisica davanti al corpo violato di Gheddafi.


 Ci togliamo però il gusto di un ricordino che sfugge agli specialisti della memoria da far incombere su tutti a perenne spada di Damocle.Tutti colpevoli. In eterno se si è tedeschi. Allora cos’è che non ricordano i nipotini delle vittime del nazismo? Forse che i benemeriti primi ministri Begin e Shamir, erano cresciuti prodi sionisti nella brigata terrorista dell’Irgun? Quell’Irgun di cui i documenti ci rivelano quanto efficacemente abbia brigato con il regime di Adolf Hitler per la soluzione della questione ebraica.Quell’Irgun, levatrice dell’attuale Israele pacifica, democratica e rispettosa dei diritti di popoli e confessioni, che al regime nazista aveva assicurato appoggio nei propositi di dominio europeo in cambio della sua collaborazione nel trasferimento degli ebrei in terra di Palestina?  Sentiamo un po’, non deve essere a tutti i costi mantenuta e nutrita la memoria?

Convegni liberi e convegni in linea
Si intensificano, man mano che ci si rende conto di chi siano i veri criminali di guerra e contro l’umanità, le operazioni di marketing in sintonia con gli sterminatori, spesso organizzate da Ong per i diritti umani e la solidarietà tra i popoli. Relatori la
créme de la créme del giornalismo embedded.e del fiancheggiamento Nato-jihadisti nella distruzione di Libia e Siria e dei rispettivi popoli. Gente che sta con i genocidi dall’inizio della montatura di una ribellione democratica contro Gheddafi e Assad, quando già ratti armati, pagati, addestrati, venivano convogliati da Usa, Israele, Nato, Turchia e tiranni del Golfo, per eliminare dalla faccia della Terra il cuore nobile della nazione araba.


Operazione salutare di verità, internazionalismo antimperialista, sostegno alla sovranità e autodeterminazione dei popoli domenica 16 gennaio, a Campodarsego di Padova. Nell’incontro ottimamente organizzato da Francesca Salvador, mezzo migliaio di persone nel palazzo dei convegni "Alta Forum" hanno ascoltato Giulietto Chiesa in diretta da Mosca dopo il suo Blitz in Siria, Massimo Mazzucco, il famoso demistificatore di tutte le False Flag sionimperialiste, Bruno Ballardini, autore di un libro sull'Isis e il sottoscritto, moderati da Claudio Messora del sito web Bioblù. Il titolo della conferenza "E' la stampa, bellezza!" era preso da un mio recente post sul blog e ha permesso, alla mano dell’esegesi del menzognificio mediatico occidentale, di spaziare su una serie di argomenti relativi allo scontro planetario in corso per il dominio mondiale dei globalizzatori: guerre appaltate, terrorismo  mercenario, UE, sovranità, TTIP, quadro politico europeo e nazionale, Nato.

Giulietto Chiesa ci ha illustrato una situazione geopolitica all'interno della quale si profila il terzo conflitto mondiale, provocato dall'aggressività dei circoli imperialisti che utilizzano gli Usa e la Nato come strumento per eliminare ogni ostacolo alla marcia verso un dominio mondiale assoluto e totalitario. A questo disegno si oppone con forza la Russia di Putin che, in Siria come in Ucraina, come a livello globale, ha saputo neutralizzare la pretesa statunitense di costituire l'unica e decisiva potenza in un mondo unipolare costruito sulla negazione della sovranità nazionale degli Stati, sulle violazioni costanti del diritto internazionale, sulla produzione di terrorismo e guerre. La brillante oratoria di Mazzucco ha illustrato il filo rosso che lega tutte le maggiori operazioni terroristiche realizzate in Occidente dall'11 settembre di New York ai recenti attentati di Parigi, attraverso le operazioni di Londra, Madrid, Boston, Oklahoma City e molte altre. Tutte realizzate contemporaneamente a esercitazioni programmate dalle autorità dei rispettivi Stati e che si proponevano di simulare proprio quanto poi è avvenuto ed è stato attribuito a terroristi, poi sistematicamente uccisi. Una strategia False Flag finalizzata a promuovere, con la creazione in provetta di un Islam votato alla distruzione dell'Occidente cristiano (fola strumentale che ancora serpeggiava tra alcuni interlocutori del convegno), la cosiddetta guerra al terrorismo, effettiva guerra a chiunque non fosse disposto a sottomettersi alla volontà e agli interessi dei manovratori dell'imperialismo.


L’Isis rivisitato
Ballardini ha scritto e illustrato nell'occasione un curioso libro in cui, per ben 287 pagine è riuscito a non menzionare gli inventori, addestratori, finanziatori, armatori del jihadismo. Viene rappresentato un Isis, o Stato Islamico, autogerminato, autogestito, autoamministrato e autodiretto. Sparisce dal racconto il nubifragio di prove, ammissioni, documenti, rivelazioni che inchiodano Turchia, Arabia Saudita, Emirati, Qatar, Kuweit, Israele, tutti paesi o Nato, o associati, o comunque clienti degli Usa, al ruolo di responsabili del fenomeno sotto padrinaggio Usa e Nato, attraverso finanziamenti, addestramenti, armamenti, rifornimenti, reclutamenti. Accreditare l'Isis come realtà statuale organizzata, in termini di autonomia e indipendenza, da istigatori, reclutatori, manipolatori, finanziatori, armieri, in grado di amministrare territori e comunità, struttura evidentemente del tutto scissa da sponsor esterni (Usa, Nato, Israele, Golfo), è un fenomeno recente e rappresenta un cambio di paradigma. Non si sa quanto innocentemente, o consapevolmente, rilanciato da certi comunicatori.


Mercenariato terrorista, o vero Stato Islamico?
Fino a ieri, ma anche ancora oggi, si trattava di coltivare nel pubblico occidentale deliri prepolitici e tardomedievali sulla minaccia dei mori all'assalto della sedicente "comunità internazionale". Da cui, dopo gli altri, gli attentati stragisti a Parigi, cuore dell’Europa colta, civile, repubblicana, democratica, erede dell’illuminismo e della rivoluzione. Un Islam feroce, sanguinario e belluino, stragista, torturatore, efferato in tutte le sue manifestazioni. Un Islam che, dopo aver annegato nel sangue e nell'orrore un paese musulmano dopo l'altro, punta alla cristianità (senza paradossalmente mai importunare Israele). I disperati espulsi dalle loro  terre dal feroce Saladino (che così spiana la strada, guarda un po', proprio al ritorno degli odiati colonizzatori crociati), dovranno essere percepiti tutti come terroristi, attuali o potenziali, che insidiano la nostra tanto civile convivenza, i nostri valori e, soprattutto, archetipo decisivo, le nostre donne. Una liturgia dei "valori occidentali" che passa disinvolta sopra 15 secoli di crimini della cristianità crociata e poi colonialista nei confronti del resto del mondo e, in particolare, del mondo musulmano. 

La campagna ha prodotto ottimi risultati. Sugli stati di coscienza alterata di popolazioni narcotizzate passano misure che sarebbero state inammissibili ancora poco tempo fa. Chiusura delle frontiere, assalti polizieschi a rifugiati in stracci, sottrazione di catenine d’oro e dei quattro soldi, quanto rimane dei risparmi dopo il taglieggiamento di scafisti e doganieri, codificazione del reato di fuga dalla morte, espulsioni di massa per avere nei cellulari “immagini di jihadisti”, o in tasca il corano, decerebrazione collettiva, panico di pubblico e isterismo delle autorità, evacuazione della più grande stazione del paese perché un tizio circolava col fucilino giocattolo da regalare al figlioletto. A buttarla nel ridicolo ci voleva un ministro degli Interni con la coppola sulle sinapsi che ha definito la figura di merda “grande dimostrazione di efficienza del sistema di sicurezza”.

Rimanendo seri, si tratta di psicosi collettiva programmata per radere al suolo ogni residua resistenza, o anche solo critica. Mica tanto ai bombardamenti genocidi su popolazioni innocenti, quella si è spenta da anni, ma, più immediatamente, al diluvio di misure liberticide, antidemocratiche  repressive, di sorveglianza e criminalizzazione universale che introducano a uno Stato di Polizia in grado di imporci la seconda “crisi”. Cioè l’ulteriore e definitivo spostamento verso l’alto di quanto resta di ricchezza sociale.

Ma dicevo del nuovo approccio a Isis, Al Nusra, Al Qaida e sigle varie. Per ora marcia in parallelo con la satanizzazione dei tartari in arrivo dal deserto, arabi, africani, o asiatici che siano, comunque musulmani. Mai sottovalutare l’effetto che si può trarre dal profondo della  memoria collettiva, quella di Lepanto (1571), o di Poitiers (732), quando dalle orde musulmane ci salvò Carlo Martello, uno che tagliò più teste lui che tutti i sultani messi insieme. Ma incomincia a serpeggiare un nuovo approccio. E’ esemplificato dal libro di  cui sopra, ma soprattutto in articoli e trasmissioni televisive. Da noi ha incominciato, prendendola alla  lontana, un’associazione pacifista che si è premurata di far sapere al mondo terrorizzato che, dopottutto, quelli di Al Nusra (edizione mediorientale dell’Al Qaida di Bin Laden, massimo bau bau prima dell’epifania di Al Baghdadi), non erano tanto male. Dove erano in controllo si comportavano discretamente e, forse forse, li si poteva anche prendere in considerazione per rimpiazzare il masskiller Assad. Altre Ong si allineano. Ultimamente si è posto in prima linea, “Un ponte per…”. Ong cara al mainstream, a suo tempo venuta alla ribalta con la sconcertante sceneggiata delle due Simone rapite in Iraq (ne ho scritto l’altra volta) e che ora si inorgoglisce a dare ospitalità e credibilità ad alcuni dei più collaudati corifei mediatici dei “ribelli” siriani. Corifei di “diritti umani” come intesi dai terroristi in Libia e Siria, di quelli  che riportino territori e nazioni all’età della pietra. Al tempo dell’assalto alla Libia, nel classico transfert freudiano, a me e a Marinella Correggia hanno dato, a scelta, dei venduti al dittatore, o dei cretini irretiti dalle sue balle. Di sicuro loro prendono i soldi da editori imparziali come la Rai. Noi no.

Il nuovo approccio viaggia in parallelo con la propaganda islamofobica fondata sulle scelleratezze di Isis e affini. Due lame della stessa forbice. Questa è necessaria a mantenere in fibrillazione psicotica i sudditi in Europa e Occidente allo scopo di giustificare, uno, guerre mediorientali e interventi militari in paesi africani troppo intrecciati economicamente a Cina e Russia e, due, i totalitarismi in marcia a casa nostra. Quello serve a preparare il terreno a una legittimazione, in loco e agli occhi delle cancellerie e opinioni internazionali, di un jihadismo riqualificato come “moderato“, per poterne fare il protagonista del disegno di frantumazione degli Stati arabi ancora in piedi. Con il ministro della Difesa, Moshe Yaalon, che dichiara di preferire l’Isis all’Iran (e ovviamente ad Assad), con Netaniahu che abbraccia i jihadisti feriti nelle sue cliniche sul Golan, con i Peshmerga che, dopo averci bisticciato un po’ sulle reciproce fette di Iraq da divorare, cogestiscono con l’Isis la spartizione del paese, con Erdogan che nutre l’Isis e se ne nutre con i traffici di petrolio, non sorprende e, anzi, visti i mandanti della trasmissione, c’era da aspettarselo, che Formigli, su Piazza Pulita, mandasse in onda un forbito e spettacolare documentario di Daish a esaltazione di quanto gli ex-scuoiatori e crocefiggitori fossero diventati bravi. Stessa cosa ha fatto il nostro relatore al convegno. E’ proprio la stampa, bellezza.

Questo documentario, virale in rete, accompagnato da una serie di reportage dai contenuti e obbiettivi analoghi nei media di tutto l’Occidente, viaggia in parallelo, incurante del paradosso, con la caccia al “jihadista della porta accanto” che deve continuare a terrorizzarci e mantenerci succubi, o addirittura collaborazionisti della nostra riduzione a schiavi. La combinazione produce episodi grotteschi. Come quel poveretto di Cosenza che, volendo andare in Turchia e avendo sul cellulare immagini di musulmani cattivi, è stato immediatamente arrestato ed espulso. Pensa che lavoro toccherà ora alle nostre zelanti autorità, al comando dell Obersturmstammfuehrer Alfano, per cacciare dal paese tutti coloro cui è rimasta appesa in rete, o nel telefonino, qualche fotogramma dello tsunami di grandiosi video prodotti da Daish e diffusi, prodigiosamente all’istante, dall’israelita di obbedienza Usa, Rita Katz.

La nuova rappresentazione non mostra più bambinelli che sparano alla nuca di infedeli, non più lame che tranciano gole, non più schiave sessuali dei matrimoni a ore, non più prigionieri in gabbia incendiati o calati nello stagno. Quella resta la comunicazione destinata a tenerci nella condizione di subalterni angustiati, ma  decerebrati complici nella crociata di civiltà contro il male. Ma vi si affianca la proiezione di un jihadismo, totalmente scisso da qualsiasi sponsor, padrino, mandante e che dimostra sul campo di saper essere anche saggio e efficiente governante. Vigili sorridenti che dirigono il traffico, distribuzione di generi alimentari e abbigliamento, scuole che si aprono ai bambini (rigorosamente maschi), cliniche, trasporti pubblici, tribunali, tasse, ricostruzione, gente serena e affaccendata in vite normali. Se ne sparge subliminalmente la sensazione che prima tutto questo non c’era. Che i governi siriano e iracheno erano fossili residui di un oscuro medioevo. E se ne deve trarre la convinzione che, dopottutto, per quei popoli laggiù non tutto il male viene per nuocere e ci si può anche stare.


Tutto questo è lo scaltro perseguimento di un’opinione pubblica internazionale che accetti e approvi lo schema imperialsionista che, per comodità chiamiamo di “Oded Yinon”, primo uomo politico, consigliere del primo ministro israeliano, ex-terrorista, Menachem Begin, a dare compiuta formulazione al disegno strategico della rivincita colonialista e della Grande Israele. La disgregazione degli Stati nazionali arabi lungo linee etnico-confessionali, utilizzando le fin lì laicamente sopite divergenze islamiche, i curdi e altre minoranze. Una Grande Israele che spazzi via, oltre alla storicamente legittimata unità araba, anche i singoli Stati unitari.padroni del petrolio, risorsa vitale per il capitalismo. Un Occidente che trovi spianata la strada all’assedio di Iran, Russia e Cina e alla nuova sottomissione dell’Africa dalle irrinunciabili materie prime. Se domani, oltre ai vari protettorati curdi (escluso l’incontrollabile PKK in Turchia) in via di definizione, si vuole realizzare un Sunnistan, egemone su quelle che risulteranno inoffensive minoranze scite (ovest della Siria, sud dell’Iraq), toccherà pure riabilitare coloro che ne hanno conquistato il territorio su mandato israeliano e occidentale.

Vedrete che pian piano spariranno le immagini e le vulgate delle atrocità jihadiste dalle aree mediorientali  e si diffonderanno sempre più quelle di uno Stato Islamico nascente, razionale e compatibile. Avrà anche cambiato nome. Meno Isis e più Daish. O "Repubblica democratica di Mesopotamia". Le atrocità terroristiche affidate da Cia, Mossad e servizi sicari ai “fanatici islamisti” le riserveranno a noi. Libri e documentari, come quelli di cui si è trattato qui, ci avranno abituati  e convinti.
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Aggiungo un commento al mio ultimo post, degno di nota e considerazione

 Ho vissuto in Russia, conosco bene i Russi.
Il problema dell'omofobia non ha nulla a che vedere con Putin né con l'attuale politica russa, quanto piuttosto è atavico retaggio cristiano e patriarcale esattamente com'era in Italia fino a qualche anno fa.
L'omofobia è più diffusa nelle aree rurali conservatrici che nelle grandi città dov'è normale incontrare coppie omosessuali che passeggiano mano nella mano. Ne ho viste tante. Una coppia gay vive tranquillamente da 10 anni in un appartamento accanto a quello dei genitori di una persona a me molto cara. Nessuno ha mai pensato di disturbare questa coppia in alcun modo.
Sappiate pure che nelle grandi città russe ci sono taxi notturni messi a disposizione esclusiva della comunità LGBT per permettere a queste persone di ritirarsi dai locali in tutta sicurezza. E che la famosa "legge omofoba" tanto strombazzata dai media occidentali non è una legge contro gli omosessuali bensì una legge contro le marchette minorili maschili, molto diffuse nelle zone più povere e disagiate del Paese. Purtroppo però l'informazione codina si dimentica sempre di contestualizzare i fatti...
Solo un'aggiunta.
I Russi sono mille anni avanti a noi.
E per livello culturale, e -soprattutto- per livello umano.
In Russia ho imparato cosa sia la generosità. Prima non lo sapevo. Qui non l'avevo mai sperimentata.
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P.S.Pressenza, newsletter del Partito Umanista curata da Olivier Turquet, dopo aver dato credito e diffusione al grottesco reportage sul fantastico numero di esecuzioni in Iran, fatto circolare da una Ong iraniana già impegnata per conto di Cia e Mossad nella "rivoluzione colorata del 2009 e ripresa con slancio da Amnesty International, senza minimamente curarsi di una verifica con dati ufficiali, sia del governo, sia dell'ONU, ha anche dato un nuovo contributo alla propaganda Nato sull'intervento risolutore russo in Siria contro i mercenari Nato-Israele-Golfo:Titolo del capitolo: "Vergognoso silenzio della Russia sulle vittime civili degli attacchi in Siria". Basta la parola. E questo signore voleva farsi capo della comunicazione di un organismo che combatte la Nato.

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NO NATO, UN BEL PASSO AVANTI

Aver messo i piedi nel piatto nazionale (e internazionale) dell’indifferenza e della complice sudditanza nei confronti del North AtlanticTreaty Organizationè merito del Comitato No Guerra No Nato che ha raccolto e cercato di dare espressione unitaria e istituzionale alle mobilitazioni che, non da ieri, sono state portate avanti da avanguardie e comunità in Sicilia (No Muos), Sardegna (No Nato), Vicenza (No Base Usa), Friuli (No Base Usa) e anche in Val di Susa (No Tav contro la militarizzazione del territorio e del mondo). Aver raccolto queste istanze, come espresse anche in una legge di iniziativa popolare depositata in Parlamento fin dal 2008, e averle interpretate in termini di messa in discussione del Trattato e della sua applicazione, se non dell’immediata uscita dell’Italia (e dell’Europa), quanto meno nell’esame dell’ipotesi e della fondamentale rivendicazione della neutralità del nostro paese, è una grande merito dei parlamentari Cinque Stelle. Tanto più che succede in coincidenza con uno Stoltenberg (forzando un po’: Montagna degli stolti, nomen omen), maggiordomo Nato con il logo SS tatuato sulle natiche, dalla Nato scovato in qualche manicomio criminale, che aveva appena finito di intimarci di spendere di più per agire e perire di guerre e di atomiche. Bella risposta, quella del 29 gennaio a Roma.

Il 29 gennaio, nella sala dei gruppi della Camera, si è svolto un convegno dal significativo titolo “Se non fosse NATO”, che già adombra, al di là delle puntualizzazioni di vario peso dei relatori e convenuti, un’Italia che non abbia subìto dal patto leonino con gli Usa l’affronto alla sua sovranità e alla sua Costituzione. Vogliamo essere fiduciosi e comprendere che una forza politica, inserita negli equilibri parlamentari e con per seguito non un blocco omogeneo, ma una varietà di sensibilità non ancora fuse in prospettiva coerente, non possa adottare la nettezza e immediatezza di proposte di comitati in cui tutti si riconoscono nella stessa parola d’ordine. Il dato di fatto è che un’iniziativa di questa portata non s’era mai vista nel nostro paese, neanche ai tempi del PCI meno consociativo, se non nei programmi delle sinistre extraparlamentari degli anni ’70.

Un impressionante video iniziale ci ha introdotto al tema mostrandoci le scelleratezze compiute nei decenni dai membri di un’organizzazione che è a totale dominio Usa. A partire da un’alleanza che si voleva difensiva, contro eventuali aggressioni dell’URSS, fino all’attuale mostro di aggressività ininterrotta che, prendendo a pretesto un terrorismo di propria produzione, ci trascina di guerra in guerra e distrugge nazione dopo nazione. Manlio Di Stefano, capogruppo M5S della Commissione Affari Esteri ha introdotto e moderato. Mairead Corrigan Maguire, che incontrai negli anni ’70 nel Nord Irlanda in lotta per il riscatto della minoranza repubblicana, quando capeggiò un movimento “contro la violenza di entrambe le parti”, un prologo ai successivi “né-né” spuntati a confondere ragioni e torti in Jugoslavia e altrove, ha dato al consesso l’aura “Premio Nobel” (non so quanto nobilitante alla luce dei tanti che ne furono insigniti). A suo indiscusso merito va assegnato che è stata capace di illustrare la sua esperienza tra i trasognati non-violenti di Siria senza cadere una sola volta nei tossici stereotipi della demonizzazione di Assad e, anzi, attribuendo la responsabilità di quella tragedia interamente a coloro a cui spetta. Andre Vltchek, collega inviato di guerra, ha raccontato alcuni episodi toccanti di vittime di guerre sullo sfondo dell’inevitabile scontro con i media embedded. Il giurista Claudio Giangiacomo ha illustrato la legge di iniziativa popolare da lui redatta.

Alessandro Di Battista ha chiuso il giro di relatori definendo punti e limiti della politica estera del M5S. Alcuni, ovviamente la vorrebbero più audace e aggressiva. Per altri, soprattutto fuori da quella sala, apparirà temeraria e irresponsabile. Tutto sommato credo che, nel panorama della cronica sudditanza italiana al dispotismo militare ed economico della cosca euro-atlantica, rappresenti un bel passo avanti.

Hanno poi dato un prezioso contributo i protagonisti di alcune validissime lotte sul campo, vere punte avanzate della mobilitazione per strappare alla Nato la presa mortale su territori e sull’intero paese ridotto a piattaforma di lancio di guerre imperialiste e avvelenato da poligoni, sperimentazioni di industrie belliche, esercitazioni: Elio Teresi per i No Muos siciliano, ora vittorioso grazie ai sigilli imposti alla base Usa sotto pressione delle grandi lotte del movimento, “Gettiamo le basi” della Sardegna con la storica leader Mariella Cau, Enrico Marchesini di “No Dal Molin”, Valter  Lorenzi di “Disarmiamoli” che, ricordato opportunamente come dalla base Usa di Camp Darby a Pisa siano usciti il rettile Gladio e le varie forme di destabilizzazione terroristica del nostro paese, è poi uscito dal seminato parlando di “imperialismi contrapposti”, laddove lo stesso M5S ha saputo bene distinguere e contrapporre le forze in campo e sottolineare il ruolo positivo di Putin e l’imbecillità strumentale delle sanzioni euro-Nato contro la Russia.

Per il Comitato No Guerra No Nato, assente perché fuori Italia Giulietto Chiesa, Di Stefano ha menzionato un suo messaggio scritto, senza dargli lettura “per mancanza di tempo”. Stessa sorte è toccata ad altre realtà organizzate. Tre minuti sono stati concessi al sottoscritto, intervenuto per No Guerra No Nato, e all’associazione  No War, con Nella Ginatempo. Quanto è bastato per denunciare, anche alla mano di episodi vissuti, dall’Irlanda del Nord ai Balcani alla Libia, il ruolo di istigatore e giustificatore di tutte le guerre, assunto da un sistema mediatico mainstrea. Vero menzognificio alternativamente correo, complice, o succubo, delle nequizie belliche o “colorate” dell’imperialismo. La prima urgenza in assoluto è il ricupero di quell’informazione libera e corretta che è scomparsa dai radar dopo la guerra al Vietnam. Un’informazione di cui si sono eliminate le voci altre, e dunque la dialettica, ovviamente temendole, distruggendone fisicamente le fonti, a Belgrado, Tripoli, Baghdad, Damasco. O cancellandole dai satelliti, come nel caso di Press TV in Iran. Dopo aver fatto riferimento alla necessità, per non restare spettatori ineffettuali, di non limitarsi a deplorare i crimini di guerra, ma di schierarsi con chi esercita il diritto alla difesa e alla liberazione, contro chi aggredisce, depreda e schiavizza, cosa pervicacemente evitata dai famigerati né-né, avevo esaurito i miei tre minuti.

Peccato. Si sarebbe potuto ancora dire molto. E’ vero che il passo di un Movimento presente su tutto il territorio nazionale, impegnato nella gara elettorale, deve essere misurato sul possibile e sugli eventuali contraccolpi a mosse intempestive. Ma è anche vero che chi agisce in autonomia sul territorio deve avere il passo più deciso e lungo per suscitare quella mobilitazione di massa che occorre a sostegno di battaglie istituzionali. 

Oggi il M5S interviene acchè i trattati internazionali siano sottratti all’arbitrio di trattative tra governi, spesso segrete, e rimessi all’autorità del parlamento. Ricorda che il Patto Atlantico prevede la possibilità dell’uscita dei suoi membri dopo vent’anni, ribadisce la preminenza della nostra Costituzione antiguerra su qualsiasi trattato, si batte contro il nucleare e le armi nucleari depositati e pronte all’impiego in un paese che ha escluso queste presenze in un referendum. E questo ce lo mettiamo in tasca.

Ci metteremmo volentieri anche in tasca la contestazione in parlamento delle ben 26 missioni militari condotte dall’Italia sotto il cappello Nato, o Onu, o UE, o multinazionale, la cancellazione degli 80 milioni al giorno e dei 13 miliardi dal 2004 che queste operazioni neocoloniali, tutte sotto padrinaggio Usa, ci costano e ci sono costate. Apprezziamo anche che il M5S è l’unica forza in parlamento e in un deserto sociale animato da poche oasi, si batta contro il trattato-capestro Usa-Ue, TTIP, assalto davvero finale a quanto ci resta di sovranità, autodeterminazione, libertà individuale e collettiva, diritti sociali e ambientali. Trattato di cui la Nato, con la sua ferrea presa politica e militare sulle istituzioni e sul territorio, è garante e strumento impositivo.


Ovviamente, avremmo poco da pretendere dai rapprentanti dei cittadini se non fossimo all’altezza della bisogna in termini di sostegno di massa all’azione politica, attraverso il nostro lavoro di informazione (tipo Pandora tv), coscientizzazione e mobilitazione capillare. I No Muos, No Tav, No Nato, ci indicano la via. E anche la poderosa mobilitazione dei No Triv che si ribellano alla devastazione di mari e territori, alla distruzione di economie vitali, come le vuole un potere sovranazionale di cui la Nato è la pistola nella fondina. Ce la annebbiano fino a farla scomparire, invece, tutti quegli spiaggiati che, un giorno sì e l’altro pure, fanno rinascere, sulle logore pagine del “manifesto”, nanetti da giardino rossi che si definiscono “sinistra di lotta e di governo”. E che non si sono mai sognati, lacrimando sui rifugiati dalle guerre Nato, sui neoliberismi sociocidi in ultima istanza imposti dalla soggezione alla potenza politico-militare Nato, di anche solo pronunciare la parola “Nato”. Non stupisce che su un’iniziativa, che non è esagerato definire storica, voluta da un Movimento  che ha seminato humus e sementi sul terreno inaridito dall’onanismo sinistrato, il “manifesto” non abbia speso una parola, pubblicato un rigo.

L'IRAN COME E' E COME VORREBBERO CHE NON FOSSE

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L'Iran è tornata alla ribalta per il suo ruolo in difesa della Siria, dell'Iraq, del diritto internazionale e nella lotta contro il mercenariato jihadista dell'imperialismo. Ma anche grazie al recente, discutibile accordo con gli Usa sul nucleare, avversato dai sionisti di Israele e dell'Occidente, ma anche dai settori antimperialisti del paese che non accettano la distruzione dell'industria nucleare civile del paese. Poi i soliti commentatori ignoranti, o a libro paga Mossad-Cia, si sono scatenati in occasione della visita in Italia del presidente Rouhani. Quest'ultima ha dato la stura alle solite imbecilli speculazioni mistificatorie e campagne denigratorie, prodotte dai circoli neoliberisti e bellicisti che non tollerano il ruolo geopolitico che questo paese sovrano e indipendente, antico e giovanissimo, esercita in Medioriente e nel mondo. 

Per avere una visione dell'Iran corretta, non manipolata, esente da mistificazioni imperialiste ed eurocentriste, vi ripropongo il mio abbastanza recente docufilm "TARGET IRAN", girato in loco tra le donne, i giovani, i politici, gli artisti, gli studenti, i lavoratori, le vittime del terrorismo Mossad-Cia e nelle stupende città del paese. Se le avete, vi farà cascare le scaglie dagli occhi su quello che è destinato a essere un protagonista del futuro internazionale.  Lo potete richiedere scrivendo a visionando@virgilio.it

GIULIO REGENI, DOVE VOLANO GLI AVVOLTOI

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Due cose sono infinite. L’universo e la stupidità umana. E non sono sicuro dell’universo”. (Albert Einstein).

Le azioni sono ritenute buone o cattive, non per il loro merito, ma secondo chi le fa.Non c’è quasi genere di nequizia– tortura, carcere senza processo, assassinio, bombardamento di civili – che non cambi il suo colore morale se commessa dalla ‘nostra’ parte. Lo sciovinista non solo non disapprova atrocità commesse dalla sua parte. Ha anche una notevole capacità di non accorgersene”. (George Orwell)

Un eroe? Calma e gesso.
Sulla persona di Giulio Regeni, trovato morto con segni di tortura al Cairo, probabilmente fatto trovare morto con segni di tortura, non ho elementi e quindi diritto di pronunciarmi. Prendo atto della sua formazione accademica anglosassone, della sua vicinanza giornalistica al più discutibile e filoccidentale informatore sul Medioriente (Giuseppe Acconcia, “il manifesto”), del suo impegno per i "sindacati indipendenti". Leggo anche della notizia riferita dal “Giornale” secondo cui Regeni avrebbe lavorato per il servizio segreto AISE. Prendo quest’ultima notizia con le pinze, come con pinze lunghe cento metri prendo l’uragano di interpretazioni uniformi e apodittiche, nella solita chiave razzista eurocentrica, scatenate, sul solito pubblico basito e disarmato, in perfetta unanimità dai due giornali opposti di opposizione (“manifesto” e “Fatto Quotidiano”) e dalla gran maggioranza dei mainstream media di stampa e radiotelevisivi. In ogni caso, compiango la sua morte e il dolore dei suoi.

Non ho certezze, ma come per tutti gli avvenimenti che rivestono una portata strategica ed esercitano una fortissima pressione sull’opinione pubblica,  potenziata dal concorso dei media citati, mi permetto di rilevare indizi e raggiungere un’ipotesi che, alla luce di quanto c’è di concreto e inoppugnabile, ha la stessa dignità e validità di quelle conclamate con sospetta sicumera da tutti gli altri che, a minuti dalla scoperta del cadavere, sanno già perfettamente su chi puntare il dito.

Regeni scriveva per il “manifesto” sotto pseudonimo. Per timore di rappresaglie, come dice la direttrice del suo giornale, dotata di certezze incrollabili fin dalle prime ore della notizia del ritrovamento, o perché sotto copertura? E tutti gli altri, che dal Cairo sparano a zero sul governo Al Sisi, in prima linea il pasionario dei Fratelli Musulmani, Acconcia, e  poi i corrispondenti del New York Times, del Guardian, di Al Jazeera e tanti altri, in maggioranza non avari di critiche anche sanguinose al “dittatore”, com’è che firmano con nome e cognome rischiando ogni giorno di finire tagliuzzati in un fosso di periferia?

Un criminale? Per chi?
Non mi pronuncio nemmeno sulla natura del governo del presidente, ex.generale, Al Sisi. Mi mancano gli elementi e, alla luce di esperienze solide come il marmo, non mi fido minimamente, anzi diffido con tutte le mie forze, delle fonti portate, con scarsa avvedutezza giornalistica (ma forse con comunanza di interessi e motivazioni) in palmo di mano e consacrate come indefettibili dal “manifesto”, dal “Fatto”, dal “TG3”, dal “Corriere”, e chi più ne ha più ne metta. Con numeri abbacinanti di detenuti, scomparsi, seviziati, stuprati, forse veri, ma che sono il solito copia e incolla dalle campagne contro altri leader di paesi da radere al suolo.Trattasi, per le fonti, della famigerata genìa di Ong che governi più avveduti di quello egiziano hanno messo al bando da tempo e che, quando domestiche, come la “Commissione Egiziana per i Diritti e la Libertà” sono fautori di mercati e democrazie occidentali, ripetono le vulgate sui diritti umani, ma mai riferite a Usa, o Regno Unito, o Francia, o Bahrein, e fanno riferimento ad agenzie sionimperialiste come HRW e Amnesty International, spesso, come queste ultime, a guida della nota lobby e di veterani delle istituzioni di Washington. Sul “Fatto” si è impegnato Leonardo Coen (interprete puntuale delle posizioni di Israele), che aveva appena finito di intingere la sua penna nel sangue delle vittime False Flag di Parigi e nella polvere da sparo delle katiuscia Nato anti-Putin.

E diffido di chi, per anatemizzare Al Sisi, si schiera vigorosamente dalla parte dei Fratelli Musulmani, storica Quinta Colonna del colonialismo occidentale e oppositori, politici e terroristici, di ogni Stato arabo laico e antimperalista. Diffido di chi sorvola, in tutti i commenti e reportage, sul catastrofico – per la democrazia e per le condizioni sociali – periodo nel 2013 in cui, grazie a pochissimi voti, perlopiù  frutto di clientele, ricatti e brogli alla Achille Lauro, si era impadronito del potere il Fratello Musulmano Mohamed Morsi. E con lui ci si è disinvoltamente scordati  dell’imposizione forzata di un integralismo islamico paragonabile a quello wahabita dell’Isis (che, del resto, è una delle varie filiazioni della Fratellanza), con tanto di Sharìa e relative punizioni corporali, della soppressione del diritto di sciopero e dei sindacati non islamisti, delle sparizioni di oppositori, dell’ulteriore crollo dell’economia e delle condizioni sociali, delle sparatorie sugli operai manifestanti ad Alessandria.

Il fascista religioso buono
Si reitera all’infinito il rosario delle nefandezze del golpista Al Sisi. Golpista e dittatore, non più di quanto non sia stato Morsi, ma forse meno in quanto esente da strangolamenti religiosi di una società strutturalmente laica. Si trascura il fatto che, dopo pochi mesi di regime integralista e autocratico, Morsi fu spazzato via, prima ancora che dai militari, da una rivolta di venti milioni di egiziani, dei quali alcuni milioni in piazza Tahrir, dichiaratisi contro il “fascista religioso”.  Al Sisi fu messo in sella da questi moti di massa e poi confermato in elezioni che non erano meno democratiche di quelle della vittoria di Morsi, anche a rischio di scegliere il cosiddetto male minore del “fascista laico”. Lo scontro divenne  cruento quando, il 13 agosto 2013, i Fratelli arroccati in Piazza Rabi’a presero a fucilate le forze dell’ordine, che risposero in maniera dissennata, con l’esito di alcune centinaia di vittime.
Non sono più stato nell’Egitto di Al Sisi e non posso esprimere giudizi che non soffrano di interpretazioni strumentali. 

Ma se è vero che ci sono tanti arresti, condanne a morte di massa (poi quasi mai eseguite), se la sorveglianza sull’opposizione, essenzialmente quella più organizzata da sempre dei FM, è asfissiante, se la repressione è intollerabile, buona parte di tutto questo si può accreditare al micidiale terrorismo lanciato dalla Fratellanza sotto varie sigle in Sinai e nelle metropoli, da Assuan a Suez, costato nei mesi dall’assunzione della presidenza del generale, migliaia di morti tra militari, poliziotti, civili inermi, turisti. Una campagna di stragi e di boicottaggi della sicurezza e dell’economia a cui ha fornito un contributo decisivo l’abbattimento sul Sinai, il 31 ottobre 2015, del Metrojet russo con 224 passeggeri, contributo di matrice anti-russa e anti-egiziana e, dunque, chiarissima. Abdel Fatah Al Sisi sarà quel che sarà, ma per arrivare ad attribuirgli la proliferazione del terrorismo jihadista, come risposta al suo regime repressivo, fino al delirio di descriverlo responsabile degli attentati di Parigi, bisogna essere, o ottenebrati dall’amore per il mostro islamista, generato dai soliti noti, o esserne al servizio. O essere Acconcia che queste cose è arrivato a scriverle.

Norma Rangeri, da sempre in buona compagnia dei corifei di tutte le False Flag, parla di “avvoltoi” sul corpo del povero ragazzo così malamente scomparso. Ci sono, come no, gli avvoltoi. Ma per riconoscerli bene la direttrice di un giornale in cui si avvicendano, accanto ai Fratelli Musulmani, i corifei della civilizzazione dell’Afghanistan e i compagni dei “rivoluzionari democratici di Bengasi”, dovrebbe guardarsi attorno da vicino. Mi ricorda molto il volteggiare di avvoltoi su carcasse da predare, l’uso geopolitico che si va facendo di Giulio Regeni.

Dipaniamo i fatti. Mohamed Al Sisi liquida la Fratellanza che è, con tutti i suoi derivati tossici, Isis, Al Nusra e altri, lo strumento principe dietro al quale mascherare la guerra agli Stati arabi liberi, laici e non proni. Sostiene in Libia, anche militarmente, il governo laico e parzialmente gheddafiano di Tobruk  e il suo comandante militare Khalifa Haftar (bau bau di Acconcia), l’unico che contro  l’Isis, rintanato a Derna e Sirte (ora anche con i suoi capi fuggiti da Siria e Iraq), prova a fare qualcosa di concreto. Rappresenta, per la soluzione del groviglio libico una soluzione alternativa a quella colonialista bramata dalla Nato, parzialmente già in atto con forze speciali-squadroni della morte.

Dopo Iraq, Libia, Siria, l’Egitto?

Ma questo è niente. Con il raddoppio del Canale di Suez, realizzato prodigiosamente in solo un anno, e con la scoperta, orgasmatica per il partner ENI, del più vasto giacimento di gas del Mediterraneo, l’Egitto diventa la prima potenza energetica che si affacci su questo mare, libera da condizionamenti esterni, riferimento politico ed economico per gli Stati e, più ancora, per i popoli della regione. Con enorme dispetto di Israele e dei suoi stretti alleati sauditi, turchi e del Golfo. Accentuato dal crescente rapporto politico, economico, militare con quei russi che ai suddetti hanno davvero rotto le uova nel paniere, scompaginandone i piani di annientamento di Siria e Iraq. Obama fa buon viso a cattivo gioco, rinnovando forniture militari, temporaneamente sospese. Ma qui si tratta di non lasciare campo completamente libero a Mosca. A esprimere il risentimento e la collera degli Usa e di Israele ci pensano le citate Ong sionimperialiste, quelle che il “manifesto” e compari atlantici definiscono “indipendenti”, le stesse che hanno liberato le vie del cielo ai bombardieri su Belgrado e Tripoli (ricordate il “dittatore sanguinario” Milosevic, o il “dittatore pazzo” di Libia che bombardava la sua gente e foderava di viagra i suoi supratori in uniforme?).

E’ tanto paradossale, quanto deontologicamente perverso, il fatto che tutti questi commentatori e cronisti si parino il culo ammonendo contro le conclusioni avventate e precipitose su quanto accaduto al Cairo, per poi immediatamente giungere alle più spericolate aporie per le quali il responsabile, diretto o indiretto, è uno e soltanto,lui, Mohamed al Sisi. E diventa un segno della sua colpa il fatto che due sospetti siano stati arrestati “così presto”. Figuriamoci, cosa avrebbero detto se gli arresti fossero arrivati con “sospetto ritardo”. Nessun sospetto invece, per carità, sul fatto che un regime che vuole eliminare un fastidio, sia talmente sprovveduto da farlo ritrovare. Perlopiù pieno di bruciature, tagli e con la testa rotta. Cose che una vulgata diffusissima attribuisce alle abitudini consolidate degli sgherri di regime.

Un giovane italiano. Perché?
Diventando seri, qui si è voluto infliggere un’altra mazzata all’Egitto straricco di gas e incline ai giri di valzer. Non si sarà riusciti a portagli via il gas, come sé’ fatto con il petrolio dei libici, iracheni, siriani. Ma intanto gli si è tolto il turismo, oggi ancora la prima voce delle sue entrate. Ma perché hanno messo di mezzo un giovane e a tutti simpatico italiano? Tale da prestarsi subito ai gazzettieri e avvoltoi (non quelli a cui spara la strabica Rangeri) per la necessaria vittimizzazione-eroificazione e concomitante diabolizzazione del presunto colpevole? Anzi, del colpevole, senza presunto.


L’Italia è dell’Egitto il primo partner commerciale europeo. Con Renzi al Cairo, 6° aziende al suo seguito e l’Eni su un mare di gas davanti alle coste, si sono recentemente conclusi accordi commerciali e industriali per parecchi miliardi. Questi scambi e la bonanza in arrivo dal mare, il raddoppiato introito dai diritti sul Canale raddoppiato e con sei nuovi porti, potrebbero contribuire a dare un ruolo di grande rilievo all’Egitto a livello regionale e internazionale. Darebbero peso alla sua indipendenza e alla indipendenza dei suoi partner da fonti energetiche controllae dagli Usa L’Italia, ovviamente per i tornaconti suoi, anzi della cricca economico-politica che puntella il regimetto Renzi, è controparte non irrilevante di questi sviluppi. Tutto questo va contro i piani, in primis, di Israele e della sua strategia di frantumazione delle grandi realtà nazionali arabe, condivisa dai principati arabi, dal sultanato di Ankara, dai colonialisti europei e dai predator Usa. Per mettere i bastoni tra le ruote del carro egiziano, a guida buona o cattiva non interessa una cippa, gli strumenti sono quelli collaudati in tanti regime change e in tante rivoluzioni colorate. In questo caso lo strumento per colpire l’Egitto, mirando al suo leader, e punire l’Italia, potrebbe essere stato un giovane italiano. Giovane e inerme, ma capace di far volare gli avvoltoi sul cadavere dell'Egitto.

MAMMA, M'HANNO CACCIATO ANCORA! Breve storia di espulsioni e cacciate d'onore

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"Nessuno può darti la libertà. Nessuno può darti uguaglianza, giustizia o qualsiasi cosa. Se sei un uomo, le prendi"(Malcolm X)

"Stai sempre con i tuoi princìpi. Anche se stai da solo"(John Quincy Adams, 6° presidente degli Usa)

"Tolto dalla lista, cogliendo la sua offerta,
fino alla riunione di NoWar-Roma, mercoledì prossimo, per decidere il futuro della lista" (Lista No War)

Tanto per sorridere un po’, su questo sfondo grigio-nero popolato da utili idioti e amici del giaguaro (con tutto il rispetto e l’ammirazione per i giaguari, non riesco a inventarmi una definizione più felice di questa, per quanto logorata dalla ripetizione e dalla sterminata proliferazione dei soggetti che vi si devono riconoscere).Tanto per sorridere un po’, e non per una pulsione narcisista all’esibizione autobiografica. Quella la lascio agli onanisti atomizzati in facebook, twitter, hashtag e via decerebrando e analfabetizzando. Tanto per sorridere un po’ su cosa capita a chi si avventura tra gli alberi belli nel bosco di Alice e si ritrova afferrato, strangolato e spazzato via dai rami. E’ la storia delle mie cacciate, o uscite volontarie. La racconto perché è ricca di significati e, sebbene non cruenta, è parte di un clima che promette di sublimarsi in un esito alla turca. Dove chi sta fuori, non resta fuori, ma finisce in carcere, o salta per aria, o finisce sotto un camion.

Padre Tentorio, del Collegio Emiliani di Nervi, insegnava e parlava greco antico. Ci impressionava per la sua bravura, era d’età inidentificabile, puzzava di sigaro toscano, era secco e pallido come una lisca di pesce e non tollerava ilarità. Ma le ilarità sono il sale dell’adolescenza, spesso assumono livelli isterici, incontenibili. Così mi accadde durante una sua lezione. Mi arrivò uno dei  ceffoni più roventi mai ricevuti (eppure avevo una mamma dal polso forte e agile). Scattai in piedi e, senza davvero averci pensato, lo ricambiai. Il fraticello esangue non mosse ciglio. Ma a casa, un’ora dopo, arrivò la telefonata della mia sospensione. Finii in collegio per sei mesi (e li mi picchiai con un altro monaco, giovane. Ci avevo preso gusto. Anche se in seguito, con i preti, per le mazzate avrei usato le parole).
E fu la prima volta, se vogliamo saltare l’allontanamento  coatto dal ventre di mia madre. Se ricordo bene, la seconda fu nel 1967, Guerra dei Sei Giorni in Palestina. Segnò sia l’inizio che la fine di quella vicenda. Lavoravo al World Service della BBC, a Londra. Era il primo giorno di guerra e già Dayan e il suo superesercito stavano riducendo in stracci gli egiziani di Nasser (fu più dura con i siriani di Atassi). E il celebrato network britannico, standard aureo dell’informazione, ne celebrava i trionfi, manco fosse Alessandro Magno e ne avesse le ragioni di civiltà. Invece il quotidiano di cui ero corrispondente a Londra, “Paese Sera”, filo-PCI, tergiversava, non sapendo bene che pesci prendere tra i due contendenti. Direttore era un Fausto Coen. Comunque mi chiese di precipitarmi in Palestina/Israele. Così, secondo episodio, lasciai la BBC di sua Maestà per il giornale di Berlinguer.
Nel Sinai, in Galilea, sul Golan, viaggiai sui tank di Dayan, con la Lettera 22 dell’Olivetti sulle ginocchia e la Nikon tra i denti. Vidi villaggi palestinesi bruciati con la gente dentro e lo scrissi. La censura militare cancellò, ma qualcosa passò e raddrizzò la linea di “Paese Sera”, con tanto di cambio di direttore. Furono quelle visioni, penso, a portarmi pocchi anni dopo a militare con i fedayin. E a non rischiare mai più di diventare non-violento: Poi feci a botte a Tel Aviv con un capitano  israeliano che, indicando le carcasse dei soldati israeliani lasciati putrefarsi al sole e tra le cornacchie, aveva sollecitato: “Guardate, l’unico arabo buono è l’arabo morto!” Scritta che avrei ritrovato 32 anni dopo a Gaza, sulle pareti della case in rovina bombardate e occuparte dagli eroi di Tsahal. Che mi confermarono nella mia non-nonviolenza. La mattina dopo fu un compunto e imbarazzato concierge d’albergo  a consegnarmi l’ordine di espulsione entro 24 ore. Terzo episodio.

Poi toccò allo stesso “Paese Sera”. Era il 1970, mi occupavo di Esteri, ma era scoppiato il ’68 e, di nascosto dal quotidiano comunista, ero entrato in Lotta Continua (pace e onore all’anima sua, e disonore agli pseudo-micro-Lenin che l’hanno tradita). A forza di fare il cronista in mezzo alle manifestazioni e agli scontri, ne ero stato infettato e mi era venuto di associarmi convinto, tra le altre cose, ai beeh-beeh-Berlinguer che eccheggiavano nelle strade all’indirizzo di Botteghe Oscure e di chi, lì dentro, stava con lo Stato repressore. Il quarto episodio fu, dunque, una mia dipartita. E per diversi anni feci il Freelance. Condizione dalla quale nessuno mi poteva cacciare e dalla quale non trovavo motivo per dimetteremi. Quarto episodio.

Finii col diventare il direttore del quotidiano “Lotta Continua”, il più bello che abbia frequentato. Accadde che anche lì mi picchiai. Col grande capo, Adriano Sofri, ma “tra compagni” queste cose finivano lì, nonostante che il vile meschinello mi avesse morso sul collo. Come un qualunque Suarez. La separazione stava nelle cose quando, il 5 novembre 1976 a Rimini, contro l’opposizione della componente operaia e studentesca , l’organizzazione fu unilateralmente chiusa da Sofri e dalle femministe. Ma il giornale rimase in vita, metempsicosizzato in qualcosa di molto morbido, compatibilissimo, femminista e dirittumanista, sotto la guida di Enrico De Aglio. Già ci volteggiavano sul capo gli avvoltoi radicali e craxisti. Con grande sollievo di Sofri e De Aglio, lasciai il giornale e me ne andai in Yemen, sospinto anche da un ordine di cattura pendente (poi archiviato) che non ho mai capito se avesse avuto a che fare con i miei 150 processi per reati di stampa, o con la manifestazione del 1 maggio 1977, in cui tirai Molotov e vidi fucilare Giorgiana Masi a Ponte Garibaldi. Episidio, quinto, classificabile come separazione consensuale.

Dallo Yemen presi a lavorare come inviato per una bella rivista arabo-inglese, “The Middle East”, che, mandandomi in un lungo e largo per tutta la regione, mi fece ritrovare e ri-amare i popoli arabi, così diversi e così uniti da costumi, valori, cultura, volontà. Finìi di nuovo a  Londra, come caporedattore della pubblicazione. Ma fu un breve inserto. Me ne andai quando al desk palestinese arrivò una collega di religione ebraica che, se non proprio la rovesciò, sconvolse la linea del giornale sulla questione palestinese: tutto Fatah e bonzi palestinesi e niente Fronte Popolare o Democratico, anzi niente resistenza armata. Episodio 6. E anche 7, visto che dallo Yemen venni espulso come “persona non grata”, avendo appoggiato mediaticamente e in amicizia il presidente nazionalista Ibrahim El Hamdi contro il generale golpista vittorioso, El Ghashmi, fantoccio dei sauditi e dell’Occidente.

L’episodio 8 ebbe una maggiore risonanza perché io, con la mia rubrica "Vivere!", prima del Tg3 delle 19.00, facevo ascolto. Sul milione, un 6% in media. Accadde nel 1999, quando da molti anni mi ero ormai istituzionalizzato in Rai. Però nel TG3 che, qualcuno ricorderà, avendo alle spalle una robusta opposizione, permetteva al trombone populista Sandro Curzi di fare la fronda al sistema democristo-craxista. Un po’ agli esteri, un po’ all’ambiente, m’era concesso di tirare fuori le unghie. Pensate, si poteva attaccare a spada tratta il governo delle Ferrovie dello Stato, i potentati economici dell’inquinamento universale, i diffusori farmaceutici di patologie e rispettivi micidiali rimedi, i padroni del massonico-mafioso-militare-piccista  traffico locale e nazionale dei rifiuti… Fino a un certo punto si poteva deplorare la Guerra del Golfo, per i suoi eccessi, addirittura celebrare a ogni piè sospinto la lotta partigiana e quella dei Vietcong. Da New York imperversava contro Washington un grandioso Lucio Manisco.

Poi venne il tempo delle Giovanne Bottere, i Balcani, la Croazia, il Kosovo. D’Alema capo del governo. La “normalizzazione”.  Operata da colui che fu il “migliore ministro degli esteri che abbiamo mai avuto” (copyright Haidi Giuliani). C’ero stato, nella Jugoslavia di Tito e poi di Milosevic. Una democrazia che noi ci sogniamo. Erano ossessionati dal voto: si votava alle amministrative, alle politiche, alle presidenziali per ogni repubblica della federazione, alle nazionali, alle provinciali. E nessuno, prima del branco Cia di Otpor e della sua rivoluzione colorata del 2001, aveva mai messo in discussione la correttezza delle elezioni. Ma la mattina del 24 marzo 1999, dopo la prima notte di bombardamenti su Belgrado, alla riunione di redazione si blaterò di ”intervento umanitario contro il dittatore Milosevic che assassina in massa gli oppositori e fa pulizia etnica di kosovari albanesi”. Questa era la verità da raccontare. A prescindere. La Botteri si precipitò e vi guadagnò il posto prestigioso di corrispondente dal cuore dell’Impero. Non era vero niente e tutti lo sapevamo. Alcuni di noi sapevano anche che era vero il contrario: che erano gli interventori umanitari i masskiller e che erano gli albanesi, sotto la guida di George Soros e Madre Teresa di Calcutta, a spazzare via i serbi e a bruciarne i monasteri medievali.

Così  - epsodio 8 - non misi più piede in Rai, presi una telecamerina e, in Serbia, tra ospedali, scuole, case, ponti, ferrovie, televisioni  umanitariamente bombardati e disintegrati, tra missili all’uranio sugli stabilimenti petrolchimici e bombe a grappolo sul mercato di Nis, tra bombardamenti all’arsenico e all’argento sulle nuvole perché provocassero nubifragi che facessero uscire il Danubio dall’alveo e gli facessero spargere i veleni ovunque, in modo che generazioni ne fossero avvelenate per sempre, feci il mio primo docufilm libero e indipendente: “Il popolo invisibile”. Tanto invisibile che, quando stavano sui ponti col cartello "Target" sul petto, gli aerei Nato li centravano benissimo. Ma nessuno ne parlava. E poi, due anni dopo, l’ultima intervista datami da Slobodan Milosevic prima del sequestro e del viaggio verso la morte programmata all’Aja, e l’altro film “Serbi da morire”.

Ero passato a “Liberazione”, organo del PRC, sempre con Curzi direttore e Bertinotti padrone. E qui si arriva all’episodio 9. La cacciata, nel 2003, fu su due piedi, in totale rotta con tutte le previsioni normative relative al mio contratto con la testata. Ordinata da Bertinotti in persona al portaborse Curzi che, non avendone il fegato, me la fece comunicare dall’amministratore. Il pretesto ultimo era che avevo scritto un pezzo in difesa di Cuba che aveva appena condannato quelli che un Bertinotti, ormai definitivamente entrista e lanciato verso lo scanno di presidente della Camera, chiamava in sintonia con tutti gli altri “intellettuali e dissidenti”, ma che furono provati mercenari terroristi  degli Usa e da questi riccamente retribuiti. Ma era solo il punto di ebollizione di una pentola che gorgogliava da tempo: da quando da Serbia bombardata, Palestina dell’Intifada, Iraq di Saddam sotto attacco, avevo scritto cose che con la marcia di avvicinamento di Bertinotti e dei suoi sgherri (Gennarino Migliore in prima fila!) al poltronificio dello Stato-colonia degli Usa, mal si conciliavano. A vedere come sono poi finiti sia il cashmirato, sia i suoi somari di razza, sia tutto il partituccolo, posso farmi uno swisssh sulla fronte e dire che m’è andata bene.

Una vita alla fiera, sui girotondi del “Calcio in culo”. Un’ escalation di successi. Una carriera brillante. Ma tutto questo è fusaglie rispetto all’evento catasclimatico supremo, quello che mi ha colpito tra capo e collo come un maglio giorni fa e che mi ha fatto sprofondare in un abisso di mortificazione. M’hanno cacciato dalla lista email di “No War Roma”, nientemeno mamma! Vi chiedete cos’è, chi sono? Ignari e ignavi! E’ un benemerito gruppo di pacifisti, perlopiù non-violenti, tra i quali alcuni miei cari amici, che da anni si intravvede sulla scena del pacifismo e del contrasto alla guerra in tutti i suoi connotati, con appelli, presidi, flash mob, comunicati, manifestazioni. Vi chiederete cosa mai abbia allora potuto provocare un provvedimento tanto severo e burbero come quello che leggete in cima a questo articolo, dato che non parrebbe che ci distinguiamo su discriminanti fondamentali.

Invece sì. E, passando dal faceto al serio, tanto ci distinguiamo che il portavoce del gruppo, un signore americano che presidia anche un comitato di americani in Italia contro la guerra, si è sentito dal cielo trascinato per i capelli a sradicarmi dalla lista, lui solo e istantaneamente, rinviando ad altra data la discussione collettiva sul provvedimento. Episodietto 10. Sono gli strascichi della “più grande democrazia del mondo”. “Cogliendo la sua offerta”, si giustifica nell’ukase l’astuto giustiziere. Cioè mi sarei io stesso posto a 90 gradi, onde ricevere la spinta all'uscita. Trovandomi in netta contrapposizione con tale hippie stagionato che riversava in lista torrenti di melodie dei suoi tempi d’oro, uniti a esternazioni politiche in cui sputacchiava equamente sia su Davide che su Golia, nel migliore stile cerchiobottista dei classici confusionari e confusionanti, quelli a cui dici “ma chi ti ci ha mandato?”, avevo detto alla lista, che dite, lui o me? La lista non ha risposto. Ha risposto Patrick Boylan, l’americano.

Ora io so che Patrick è uomo di spirito e prenderà questi miei arruffamenti per quel che sono: fraterna dialettica tra viandanti su strade che divergono e s'incrociano. Il fatto è che, seppure un po’ drasticamente, a cacciarmi ci ha preso. M’ero avvicinato alla lista No War pochi mesi fa, invogliato da alcuni suoi attivisti che ho per stimati amici e compagni di ventura. E mi sono ritrovato davanti  la considerevole mole di Patrick, la stessa con la quale avevo battibeccato in un incontro pubblico sulla Siria a Zagarolo, quando gli era venuto  l’uzzolo di dare del dittatore al presidente siriano Assad, per quanto eletto dal suo popolo meglio di quanto non sia stato eletto Renzi da noi. Un concetto ribadito da PB anche l’altro giorno, alla manifestazione di Roma contro le guerre Nato, quando è apparso dietro a un grande cartello “NON BOMBE – MA DIPLOMAZIA”. 

Di che bombe parliamo? Ma è ovvio, le praticamente uniche, quelle che ci vengono deprecate da ogni schermo e pagina stampata: le siriane, le russe. E comunque tutte le bombe sono cattive. Che esplodano in difesa o in offesa. E chi vede il cartello non può non pensare: russi cattivi. Sotto le bombe, oltre ai civili, negli scritti di Patrick, chi ci sta? Ma è ovvio, “i ribelli”. Non i terroristi, non i mercenari importati, non, almeno, “quelli che in Occidente sono chiamati ribelli”. "I ribelli" e basta, come dicono, legittimandoli e onorandoli, la Botteri, Il Corriere, Gentiloni, la Mogherini, Furio Colombo. E come nessun siriano, a cui bande di subumani stanno succhiando il sangue, sfasciando il paese e sterminando i concittadini, direbbe. "Dico ribelli - spiega Patrick - perchè così avvicino gli intellettuali liberali". Che, sennò, si ritirerebbero inorriditi, Guai a perderli, 'sti intellettuali liberali, e chi li fermerebbe più i violenti? E qui che l'incrocio diventa divergenza, come insegnano tristemente tutti coloro che hanno adottato il linguaggio del padrone. Col linguaggio si insinuano le idee....

E "diplomazia"? Anche il papa ha appena rievocato diplomazia e dialogo. Ci devono pensare gentiluomini come i sauditi, pacifisti come gli statunitensi, francesi, britannici, tagliagole come i jihadisti e, se proprio insiste, anche qualcuno che si riesce a strappargli dalle fauci. Ma guarda se queste invocazioni a negoziatori potenti, supra partes e intra partes, acchè s’impiccino e risolvano, appassionatamente in nome della non-violenza, non si sono fatte diapason nel momento in cui siriani e russi, hezbollah e volontari iraniani, truppe e milizie popolari irachene, stavano rovesciando le sorti della guerra a vantaggio degli aggrediti e offesi! Mentre, dopo 5 anni di indicibili violenze subite e sofferenze provate, si profila un esito di giustizia, sommamente inviso ai becchini volteggianti sulla Siria, Fermi tutti! Tregua! Cessate il fuoco! Diplomazia!

Coincidenza, ti pareva. Ma vogliamo, o no, annientare in noi quel riflesso colonialista che ci fa ritenere in diritto di andare a sistemare, correggere, combinare, scombinare, insomma interferire, a casa altrui e dove nessuno ce l’ha chiesto?  Riflesso che pretende di saperla più lunga di 20 milioni di siriani e spunta in quella signora No War che rampogna un prelato siriano  per essere uscito dai sacri confini della non-violenza, avendo auspicato ogni sostegno all’esercito di Assad nell sua  lotta contro l’Isis C’è chi poi sublima la non-violenza al punto da sbertucciare l’impresa di una brava compagna che da sola, alla Farnesina, ha gridato in faccia a John Kerry “siete i genitori dell’Isis”, o qualcosa di altrettanto giusto. Godono di ospitalità e credibilità nel gruppo anche forme rettilesche di inquinamento ambientale come Human Rights Watch, Amnesty International, o l’agenzia di notizie del Partito Umanista “Pressenza”, che si preoccupa di Aung San Suu Kji, del Dalai Lama, e delle “tante vittime civili che provocano i bombardamenti russi”.

Insomma in NoWar Roma c’è di tutto, compresi quegli amici stimati che dicevo. Ma, a mio avviso, c’è e si personifica nel personaggio più in vista, uno spirito del tempo che sa più di arroganza occidentalista nella forma soft del liberal amerikano, con il suo mostruoso magazzino di presunzioni e pregiudizi “democratici”, con il retropensiero che comunque la civiltà migliore sia la nostra, che di antagonismo radicale. Antagonismo necessariamente estremo, per quanto estremo è l’attacco che l’umanità subisce. Dove la “democrazia” è la pietra di paragone, la cornucopia, lo standard aureo. Quella dei fischi per fiaschi.

Quando vedo in Occidente dita di vario colore e natura, anche quello di molti No War, puntare sulla “dittatura” del cattivo leader, sul totalitarismo, la corruzione, gli arresti e processi arbitrari, le carceri disumane, le torture, gli stupri, i violenti, gli Al Sisi…. mi scatta un riflesso visivo condizionato. Non vedo più niente se non deserti arroventati, coperti dei “miei” cadaveri. Quelli visti disfarsi tra la polvere e il sole di Gaza, quelli, uguali, in Libano fatti imputridire dentro dalle armi proibite di Israele, quelli di bambini Down di Tripoli, rimasti sotto le macerie del loro centro di riabilitazione, quelli fermatisi nelle incubatrici irachene perché l’uranio Usa gli aveva messo il cervello al posto di una spalla, o in quelle di Belgrado, cui le bombe avevano tolto la corrente. Vedo ragazzetti palestinesi e nordirlandesi pagare il loro grido di pietra con un proiettile in testa, o un polmone bloccato dal gas. Vedo vedo vedo. Vedo 2,5 milioni di fantasmi iracheni e 500mila loro orfani e so che se tutti questi avessero un Kalachnikov e un Mig 17 sulla testa, la storia sarebbe presto finita. Finita bene. 

E allora chi mi viene a rimbrottare la mia non-non-violenza, chi pretende de mannà affanculo l’uno e l’altro, Davide e Golia, il “dittatore” e chi ne stermina il popolo, io lo prendo a male parole. Così la discussione diventa su come ti vesti, come parli, non su che faccia hai e su cosa dici. Ti riducono a un maleducato. Colpa mia: è il pretesto che offro a chi mi vuole fuori dalle gonadi.


E allora, sono, o no, espulsioni e uscite d’onore? O è solo una pappardella storica che fa uso politico di faccende private?

EGITTO-ALEPPO, MANOVRA A TENAGLIA. La Siria vince, ma i curdi a che gioco giocano?

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“Come le pecorelle escon dal chiuso a una, a due, a tre, e l’altre stanno timidette atterrando l’occhio e il muso; e cio’ che fa la prima, e l’altre fanno, addossandosi a lei, s’ella s’arresta, semplici e quete, e lo ‘mperchè non sanno…”(Dante, Purgatorio, canto III)

“L’Italia è stata grandiosa.Il suo impegno nella coalizione-anti-Isis è sostanziale, uno dei più grandi in termini di persone, di contributi finanziari e militari in Iraq e, in particolare, per la sua leadership in Libia nel processo di formazione del governo. La ringraziamo”. (John Kerry, Roma, 2/2/16. In merito all’invio di complessivamente 2000 professionisti italiani, la presenza più cospicua dopo quella dei 3000 Usa, di cui 450 alla diga di Mosul, per una difesa da nessuno – l’Isis è feroce, ma non scemo, non allagherebbe mai i suoi territori – ma il cui restauro  da 280 milioni, è stato affidato all’Italiana “Trevi”. Sono 3000 mercenari Nato, come i Marò in uso pubblico a protezione di interessi privati, che però contribuiscono alla tripartizione necolonialista della nazione irachena).

Filo-qua e filo-là, a prescindere.
Prima di parlare dei curdi, vorrei comunicare la mia risoluta antipatia e il mio fondato sospetto su gran parte dei filo-curdi, specialmente quelli organizzati. Mi riferisco non tanto a coloro che inseriscono i curdi nel loro interessamento per popoli negati ed esclusi dal concerto degli Stati riconosciuti. Ma a quelli che mitizzano i curdi in quanto tali e ne fanno una pietra di paragone impropria e strumentale a scapito di altre realtà etniche, o nazionali. Curdi che diventano, qualsiasi cosa facciano, archetipi dei migliori valori, con implicito disconoscimento di altri, magari altrettanto o più degni di stima e sostegno (penso ai curdi di Kobane, esaltati, e ai combattenti siriani, iracheni, libici, denigrati o ignorati). In questo modo i curdi vengono collocati in una specie di Truman Show, dove ogni cosa è perfetta, armoniosa, giusta, bella e, invece, sotto sotto, molte cose sono finte, sbagliate, o turpi. In questo senso i filo-curdi si pongono sullo stesso piano dei filo-palestinesi, dei filo-cubani, dei filo-vietnamiti, tutti filo a prescindere, per i quali la qualità dei soggetti della loro passione è un dato acquisito per sempre, apodittico e consacrato da aporie incrollabili.


E guai a metterlo in discussione. Anche quando tutte le organizzazioni palestinesi tradiscono il loro popolo e chi lo ha sostenuto nei decenni, pugnalando la Siria e passando con il tiranno del Qatar. Anche quando Raul Castro rinnega una resistenza di popolo di oltre mezzo secolo pensando di tirarsi fuori da un fallimento epocale grazie al libero mercato e al lazo yankee. Anche quando in Vietnam il partito unico comunista, manda i suoi ufficiali nelle scuole di guerre Usa e governa con pugno di ferro la transizione al capitalismo più feroce. Con i filo –qua e filo-là abbiamo a che fare con una sindrome che ricorda il rifiuto di uscire dall’infanzia, l’attaccamento tardivo a una mammella disseccata.

Vediamo cosa succede in Medioriente e in Nordafrica, sul terreno. Tocca lacerare le cortine di nebbia sparate dagli operatori delle grandi distrazioni di massa. Matrimoni gay e adozione dei figliastri, temi validi ma da molti usati in funzione di copertura di grandi misfatti, commedie degli equivoci ginevrine dove le vittime dovrebbero accordarsi con i carnefici, tempesta di coriandoli anti-Isis scatenata su Roma da Kerry e da altri padrini e soci dell’Isis, riuniti nella cosca terroristica Small Group, nuove bordate di commozione sui rifugiati, l’avanspettacolo del burattino Renzi che agita la sciabola di latta in faccia ai burattinai di Bruxelles e Berlino e l’ennesima pandemia da Zika, immancabilmente trasmissibile anche per via sessuale (come la mega-invenzione Aids) a fini di ulteriore panico collettivo, ulteriori controlli sociali e ulteriori profitti di Big Pharma.

Egitto-Grand Guignol ed “esodo biblico” da Aleppo: manovra a tenaglia anti-araba
Da qualche giorno sono essenzialmente due le direttrici lungo le quali si articola la strategia Nato-Golfo-Israele e che vengono rilanciate dai media a mo’ di fosforo bianco che incenerisca le facoltà della gente di distinguere e capire. Travaglio li chiama con sardonica perspicacia GUN, Giornale Unico della Nazione. Ma precipita nel paradosso perchè, cadutogli di mano lo scudiscio con cui percuote falsari e velinari dell’informazione, dà sulla vicenda Giulio Regeni-Al Sisi prova di essere, di questi tenori del falso e della velina agli ordini della bacchetta imperiale, il rappresentante più prestigioso. Nel suo editoriale, accanto a comici decaduti come Paolo Haendel, ridotti a sfottere gli iraniani che si passerebbero sottobanco le foto “porno” della Venere di Prassitele, il presidente egiziano viene squartato a forza di “Pinochet d’Egitto”, “Videla arabo”, prima ancora che una qualsiasi indagine abbia dato una qualsiasi indicazione concreta (ma basta ripeterlo, Goebbels insegna). Grandi  cultori della legalità e del diritto, capaci di comporre in sé le funzioni di investigatore, pubblico ministero e giudice, con prove e sentenza incorporate ancor prima che il reato venga commesso, la vittima vista, il colpevole individuato..

C’è tutta la destra e tutta la “sinistra” nell’operazione. Entrambe devotissime  ai Fratelli Musulmani, storico strumento del colonialismo contro la rinascita nazionale, laica e socialista dei popoli arabi e, oggi, nelle sue varie derive terroristiche, mercenariato dell’alleanza Nato-Golfo-Israele per quella che dovrebbe essere la disintegrazione definitiva della nazione araba. Due esempi. Acconcia, forsennato satanizzatore di Al Sisi sul “manifesto” e Massimo Fini, disinformato pasticcione e, perciò, rara flor di “intellettuale di destra” che, sul “Fatto”, rilancia invereconde balle sugli abominii di Al Sisi, tratte dalle sacre tavole delle Ong dei diritti imperialisti, detti umani, rafforzate dall’estenuata ripetizione delle nequizie di tutti coloro, infami dittatori laici, che si erano tolto dai piedi l’ingombro coloniale dell’equivalente islamico della teocrazia israeliana. Per lui Morsi, che infliggeva la Sharìa a tutti, vinceva le elezioni trascinandone le donne al seggio a bastonate e ricattando le famiglie con l'assistenzialismo islamico, proibiva gli scioperi e sparava sui manifestanti, era un illuminato e democratico governante.

Dicevamo delle due direttrici. Una è quella del parossismo forcaiolo e apodittico, oltreché ottuso sul piano meramente logico, applicato all’Egitto di Al Sisi con una crocefissione del reo individuato e provato a corpo del povero Regeni ancora caldo. Parossismo di cui “il manifesto” e addirittura mosca cocchiera, tanto sulla prima direttrice, quanto su quella parallela. Che è l’utilizzo di Aleppo e delle vittorie siro-russe per montare una gigantesca disinformazione “umanitaria” sui profughi siriani in fuga. “Il manifesto” (scusate la ripetuta citazione del modesto giornaletto in mano alla lobby, ma purtroppo in certi ambienti, presunti di opposizione, fa ancora opinione) titola “La battaglia di Aleppo e l’odissea delle popolazioni civili – 350mila indesiderati in fuga verso la Turchia”. Bum!
 Il grande flirt

Qui non solo si elevano alla terza o quarta potenza quei 40mila, o 70mila, profughi che, nella versione turca e dei signori cartacei ed elettronici della guerra, si addenserebbero alla frontiera chiusa della Turchia. Canta in coro, il giornale, con la novella Feldmarescialla Kesselring, Angela Merkel, piombata da quelle parti just in time e intrecciatasi col camerata nazisultano Erdogan per rivelarsi al mondo “inorridita per la tragedia inflitta dai russi ai civili siriani” (il raccapriccio della cancelliera di ferro lo citano tutti, chè se è raccapricciata lei, usa a sfottere bambine palestinesi da cacciare di casa in Germania, figuriamoci quanti titoli per raccapricciarci abbiamo noi).

Aleppo come Kosovo
La bufera di vento che da giorni sta piegando minacciosamente i miei cipressi e la mia antenna satellitare, è un lieve zeffiro rispetto al fortunale Regeni-Aleppo, ennesimo rinfocolamento dello scontro di civiltà, stavolta con variante. Non più tra noi civili e i barbari islamici. A costoro ora si cuciono addosso i panni laceri e insanguinati delle vittime formicolanti nelle segrete di Al Sisi e tra le macerie di Aleppo, al cui fianco è doveroso umanitariamente schierarsi. Noi civili contro le turpitudini dei laici Al Sisi e Assad  e del quasi-ancora-di nuovo-sovietico Putin. Ciò che questi scagnozzi, addomesticati dal tengo famiglia, scrivono, o mostrano dagli schermi, sul governo egiziano e su quello di Damasco vale quanto  scrivevano e mostravano su Gheddafi. Rispuntano, in Egitto, le solite screditatissime Ong dei diritti umani e, addirittura, gli stessi blogger del tempo della rivoluzione, poi scoperti infiltrati Cia. E, come al solito, la voce della controparte non c’è, viene annichilita dal ridicolo e dal disprezzo razzista, quando non del tutto taciuta.

Sul presunto uragano di profughi da “Aleppo bombardata da Assad e dai russi”, campagna finalizzata a giustificare l’aggressione Nato-Golfo via terra, rinvio a un documentato articolo di Enzo Brandi da richiedere alla lista No Nato.. A me ha colpito la perfetta ripetizione di quanto avevo visto succedere in Kosovo. Allora dagli schermi ci piovevano addosso decine di migliaia di fuggiaschi laceri e affamati che premevano ai confini di Albania e Macedonia, inseguiti dai pulitori etnici serbi di Milosevic. E non era vero niente. Perfino i civili torturati e assassinati a Racak (affiancabili sia al povero Regeni, sia ai “bambini uccisi dalle bombe-barile di Assad" ad Aleppo), pretesto ultimo per l'attacco alla Serbia, erano una messa in scena dell’osservatore ONU e spia William Walker, con utilizzo di miliziani kosovari caduti in battaglia e successivamente tagliuzzati per risultare seviziati (un falso che equivale a quello di Srebrenica e delle foibe). La famigerata “pulizia etnica” (che ancora sopravvive nei memoriali di Tommaso De Francesco del “manifesto”, insieme all’epiteto di “despota” a Milosevic), l’hanno subita esclusivamente i serbi, cacciati in 300mila dalla terra loro.

Oggi l’immonda farsa si ripete con i presunti profughi di Aleppo ai confini turchi, costruiti dai media per puntare il dito sui bombardamenti russi, tutti sui “civili”, come ormai da settimane risuonano i do di petto degli “Amici della Siria e di Kerry”. E se dal Kosovo ci riempiva di scelleratezze serbe e tragedie albanesi la nota Botteri del Tg3, proprio lì conquistatasi i galloni di corrispondente Rai, fiduciaria della Casa Bianca, qui ci siamo affidati ad altre eccelse professioniste, nuovamente donne (quando mai una donna mente!). Lucia Goracci di Rai News24, Maria Cuffaro, del TG3, snocciolano il rosario dei crimini russi e, oscenamente, ne mettono i grani in bocca a qualche disperato alla ricerca di pagnotta e asilo politico, proprio come la loro sorella maggiore faceva in Kosovo. L’ordine di servizio agli embedded è sempre quello.

Grazie alle sortite dell’aviazione russa, che, dopo un anno di pippe della coalizione occidentale, hanno neutralizzato oltre il 40% del potenziale bellico e logistico del jihadismo dalle varie denominazion, e grazie alla tenuta e alla determinazione dell’esercito arabo siriano, Aleppo è tornata dopo tre anni sotto controllo governativo, con ormai solo residue sacche di Al Nusra e Jaysh al-Islam in periferia. Che però bombardano con mortai e razzi gli abitanti del centro, così che si possa lacrimare per le “vittime di Assad”. Per anni la situazione di Aleppo, come quella del campo palestinese di Yarmuk, ci è stata raccontata da inviati dell’Impero come Ricucci, o Quirico. Centri fatti passare per assediati e affamati dalle forze governative e, invece, occupati dalle formazioni jihadiste, o del Libero Esercito Siriano, che usavano i civili come scudi umani e impedivano che gli arrivassero aiuti. Quelli paracaduti venivano confiscati dalle milizie mercenarie. Un discorso che vale per tante altre città sottoposte a occupazione dai rifiuti umani assemblati dalla Nato in Turchia, Giordania e nel Golfo. Le accuse ad Assad valgono quelle a Gheddafi sul Viagra ai propri soldati stupratori.
Esercito Arabo Siriano libera Rabi'a

Siria e Iraq, cambia il vento, ma si avvicina la tempesta
Ora le maggior vie di comunicazione sono state liberate e quelle dei rifornimenti e rinforzi che turchi, sauditi e giordani da anni fanno affluire ai mercenari, sono interrotte.Tra coloro che si ammassano al confine sono molti i terroristi in fuga, mentre gran parte dei loro capi si sono rifugiati in Libia. L’esercito arabo siriano, ormai a pochi chilometri dal confine turco e da quello giordano, può ora concentrarsi sulla roccaforte Isis di Raqqa. Sembra a un passo dalla vittoria e, quanto meno, la situazione sul campo e nei rapporti di forza si è rovesciata. Da qui, il sabotaggio delle “opposizioni” ai colloqui di Ginevra, in attesa che qualche intervento esterno possa rimettere loro e i loro sponsor in condizione di negoziare da posizione migliore. Da qui anche il marasma mediatico che prova a coprire la realtà di una manovra lanciata dalla “comunità internazionale” cinque anni fa, con la certezza di ridurre la Siria in brandelli come la Libia, che appare sull’orlo del fallimento. Tanto più che un esito analogo si presenta agli smembratori dell’Iraq, dove l’avanzata delle forze lealiste e delle milizie popolari, da Ramadi  e Tikrit liberate verso Fallujah e Mosul, ha messo in grave imbarazzo la Coalizione presunta nemica dell’Isis. Tanto che Washington si è permessa di intimare al governo iracheno lo scioglimento delle forze popolari volontarie, appunto la punta di diamante della lotta all’Isis.
Ramadi liberata

Ora è tutto un correre in aiuto all’Isis e soci, sempre meno mascherato da “lotta all’Isis” e sempre più estremo tentativo di regime change e di alt alla Russia. I sauditi, pur non venendo ancora a capo di uno Yemen macellato e affamato dal blocco navale Nato, ma vigorosamente resistente, addestrano una forza di 150mila soldati provenienti dall’Asia e da vari feudi arabi, ma soprattutto mercenari della nota “Blackwater” statunitense. Vi si aggiungono promesse di truppe da Emirati, Bahrein e Kuweit. Lasciano il tempo che trovano. Miserabili mercenariati demotivati che basta un reggimento siriano a spazzar via. I turchi preparano l’invasione da Nord e intanto, come dimostrato dalle rilevazioni satellitari russe, cannoneggiano le aree di confine sotto attacco siriano. Gli Usa, già presenti insieme a britannici e francesi con i loro squadroni della morte, rinominati Forze Speciali, con reparti militari veri e propri sono penetrati in territorio curdo, dove sappiamo, sempre grazie ai satelliti russi, che stanno ingrandendo un aeroporto da cui decollare più agevolmente che non dalle lontane basi in Turchia e nel Golfo. La temuta conflagrazione generale, cui puntano i funamboli dementi del Nuovo Ordine Mondiale, pare avvicinarsi.

I curi, che fanno i curdi?
E i curdi? A che gioco stanno giocando? Si fanno sostenere dai russi contro l’Isis, ma anche dagli americani. Combattono contro Daish insieme a forze siriane che, però, si dicono all’opposizione di Assad. E ora hanno concesso nientemeno che un aeroporto agli Usa. Conosco bene i curdi iracheni, meno quelli siriani e per niente quelli turchi che, però, mi sembrano, pur nella defezione del loro capo storico imprigionato, Ocalan, ormai disposto a un accordo qualsiasi con Erdogan, i più coerenti e con le ragioni più valide. Il regime fascistoide e stragista del megalomane neo-ottomano, Fratello Musulmano e padrino e ufficiale pagatore dell’obbrobrio Isis, non può non portare le persone di buona volontà a schierarsi dalla parte della resistenza armata di un popolo decimato da decenni..

Dalla caduta dell’Iraq libero, il Kurdistan iracheno è il feudo di un capoclan, Massud Barzani, figlio del mitizzato Mustafa, contrabbandiere al servizio della Cia e manovratore terrorista contro l’unità del paese.Sotto tutela israeliana, la regione è alla mercè di un tiranno corrotto, narcotrafficante, che controlla a forza di massacri le continue rivolte di una popolazione stremata. Le infrastrutture avviate dal governo di Saddam, scuole, strade, università, ospedali (ricordo di aver percoso nel 1979 una nuova strada di montagna lunga 70 km, da Irbil a villaggi storicamente isolati, scavata nella roccia dall’esercito iracheno nel giro di 6 mesi), giacciono abbandonate e dilapidate, mentre la fortuna del clan al potere, che ha agevolato uno spaventoso land grabbingisraeliano, si rispecchia nella miseria diffusa della popolazione. I Peshmerga, celebrati combattenti curdi, non sono che la guardia pretoriana del presidente-padrone. Il loro principale impiego è stato nell’espansione del 50% del territorio originario curdo attraverso la pulizia etnica della maggioranza araba a Kirkuk e verso Mosul e l’occupazione di aree sottratte all’Isis e in cui hanno impedito agli arabi di tornare. Immagini satellitari hanno mostrato la distruzione, per mano curda, di decine di villaggi arabi nelle provincie di Niniveh, Kirkuk e Dyala. Sono migliaia i profughi arabi di queste zone, ma non godono del privilegio dell’attenzione della stampa e dell’indignazione della Merkel..

Mosul, seconda città irachen, totalmente araba, al momento è occupata dall’Isis. Ma siccome, nel piano di smembramento dell’Iraq tra curdi, sunniti (Isis) e sciti, Mosul parrebbe assegnata ai curdi, il portavoce Usa della Coalizione anti-Isis, Brett Magrec, si è premurato di annunciare, il 10 febbraio, l’imminente attacco a Mosul dei peshmerga sostenuti dalle sortite della Coalizione. Cosa che rinnova la frizione tra Ankara e il resto della Coalizione. Erdogan, pur disponibile verso un Kurdistan iracheno che non rompa le palle in Turchia e stia a cuccia nel Nuovo Medioriente ottomano-atlantico-wahabita, non vorrebbe cedere un polo militarmente ed economicamente strategico come Mosul e perciò ha invaso il paese e ha fatto occupare dal suo esercito una base militare a nord della città.
Bandiere curde e bandiere dei ratti insieme

Un espansionismo armato, al pari di quello in atto nell’Iraq da smembrare, viene praticato, per scopo affine, dai curdi siriani, anche qui con il sostegno degli Usa. La situazione è meno limpida che in Iraq. Se è vero che reparti curdi in Siria combattono l’Isis con l’assistenza aerea dei russi, è anche vero che i curdi dell’YPG hanno concesso all’aeronautica Usa l’aeroporto di Rmeilan, nel Nordest siriano sotto loro controllo, ma che fa parte della provincia araba di Hasakah. L’aeroporto, diventato prima base statunitense in Siria, ha un grande valore strategico: avvicina le piste di decollo degli aerei Usa ai loro obiettivi (jihadisti? Siriani?) ed è collocato al margine di importanti giacimenti e impianti petroliferi.


Il 15 ottobre scorso si è costituita una strana alleanza tra curdi  dell’YPG e siriani che si dichiarano di opposizione ad Assad (e come tali hanno chiesto un seggio al tavolo dei negoziati). Si chiama “Forze Democratiche Siriane” (SDF), comprende una quindicina di fazioni, tra cui il Libero Esercito Siriano e 500 combattenti stranieri, come comunicato da un suo portavoce,Taj Kordsh, che ha anche detto che “la base Usa servirà a rifornirci di armi e a permettere operazioni dell’aeronautica americana”. Fotografie satellitari russe danno la misura del prolungamento delle piste di Rmeilan. 
Questo potenziamento delle capacità operative dei bombardieri Usa coincide con la ripetute richieste a Mosca, di John Kerry e del caporale di giornata Nato Stoltenberg, di sospendere gli attacchi aerei “perché stanno minando gli sforzi per trovare una soluzione politica e provocano l’alluvione di profughi in Europa”. Pensando a chi ha combinato tutto l’ambaradan siriano, da 5 anni a questa parte, prima con Al Nusra, poi con l’Isis, verrebbe da dire che questi, come la Merkel, come Erdogan, il terminator che è arrivato a dichiarare la Russia responsabile della morte di 400mila siriani, e tutti i loro sguatteri mediatici, hanno la faccia come il culo. Rimane l’interrogativo, l’YPG curdo che combatte sotto copertura aerea russa è d’accordo con l’YPG che spiana la strada all’intervento diretto Usa?

Comunque, liberando un po’ per volta il paese, la triplice Esercito Arabo Siriano, Forze Popolari e aeronautica russa  sta strappando l’osso dalle zanne di chi aveva iniziato a strappare brani al corpo della Siria. C'è  rischio di contagio. Non per nulla il Pentagon ha proposto a Obama un piano per la costruzione di una catena di basi militari dall’Asia sud-occidentale (Pakistan) attraverso il Medioriente, fino nel cuore dell’Africa (Niger, Camerun e altri), ognuna con reparti di pronto intervento da 500 a 5000 effettivi. Lo richiede, ha detto Ash Carter, la proliferazione dell’Isis in tutti questi paesi. Così l’amministrazione Usa, dopo aver speso un occhio della testa dei suoi contribuenti per creare, diffondere e mantenere in piedi lo “Stato Islamico”, ora si prepara a impegnare altri 500 miliardi per serrare il controllo sui paesi coinvolti, fingendo di combattere i tagliagole.  

La domanda da farsi ai filo-curdi, e anche al “partigiano italiano Karim”, magnificato sui media per essere andato a combattere a Kobane, sarebbe questa: a che gioco giocano i curdi? Al partigiano Karim aggiungerei la domanda: “Perché diavolo non sei andato a combattere con i patrioti siriani, altrettanto impegnati per la libertà, l’uguaglianza, la giustizia sociale, i diritti delle donne, la patria, ma che, diversamente dai curdi, non hanno neanche il conforto  di un’opinione pubblica simpatizzante, di destra e sinistra?”.


Guardate un po’ cosa mi è arrivato via “Change.org”. E, soprattutto guardate quanti amici del giaguaro si trovano tra gli utili idioti che hanno firmato. E poi riparliamo di Egitto.


Ciao Fulvio,
mentre l'autopsia sembrerebbe confermare la pista dell'omicidio politico, gli amici di Giulio Regeni - il dottorando 28enne ucciso al Cairo alcuni giorni fa - chiedono che sia impiegato "ogni mezzo possibile per far luce sulle circostanze dell'uccisione".
"Giulio ha pagato per aver messo a disposizione la sua esperienza, raccontando e traducendo da un contesto a un altro. Questo non deve succedere".
Ora tutti conoscono Giulio: aveva 28 anni ed era un dottorando dell’Università di Cambridge. Dal Cairo, dove si trovava da settembre per condurre la sua ricerca sull’economia egiziana nell’era post Mubarak, raccontava quello che accadeva in Egitto.
Il 25 gennaio 2016, giorno dell’anniversario dell'inizio delle manifestazioni che hanno portato alla deposizione del presidente Mubarak, Giulio è scomparso. Il suo corpo è stato rinvenuto giorni dopo, nei sobborghi del Cairo, con evidenti segni di tortura.
Giulio rappresenta tutti quei giovani che hanno scelto di indagare il contesto in cui viviamo, con passione, curiosità e spirito critico, per comprendere e conoscere ciò che viene proposto come lontano e diverso. Per questa ragione è nostro dovere ricordare i motivi che hanno spinto Giulio, come tanti altri, a mettere a disposizione di tutti una lettura delle dinamiche che determinano la qualità della nostra convivenza, in un ambiente che si presuppone essere sicuro - quello accademico. Si tratta degli stessi motivi che vogliono garantire la crescita e il mantenimento di una cittadinanza mediterranea e universale, pensata per contribuire alla pace, alle libertà e allo sviluppo di tutti i popoli del comune mare.
L’omicidio di Giulio vuole scoraggiare ogni possibile relazione tra donne e uomini che vivono su sponde diverse del Mediterraneo, andando così ad aumentare il divario tra confini autoimposti, con l’intento di minacciare la possibilità, per tutti, di calarsi in realtà solo apparentemente diverse e non collegate fra loro. Con tale azione violenta si vuole mettere in discussione la libertà di parola, di pensiero e di movimento: è un deliberato atto di soppressione dello stupore e della curiosità umane, perché ritenuti dannosi.
In questo contesto è necessario che i governi di appartenenza, così come le istituzioni accademiche, siano in grado di garantire l’incolumità di tutti coloro che, per il raggiungimento dei propri obiettivi umani e professionali, abbiano la necessità di recarsi in zone a rischio: Giulio ha pagato per aver messo a disposizione la sua esperienza, raccontando e traducendo da un contesto a un altro. Questo non deve succedere.
Per tale motivo, pur coscienti dei limiti dell'esercizio di retorica, chiediamo alle autorità tutte - ai governi egiziano e italiano e all’Unione Europea - di impiegare ogni possibile mezzo per far luce sulle circostanze dell’uccisione di Giulio Regeni.
Link consigliati:
Gli Amici (Giovanni Parmeggiani, Stefania Villanacci, Eleonora Bacchi, Esther Amoròs Berna, Shady Alshhadeh, Pilar Lopez, Claudia Morini, Patricia Belmonte Cerdàn, Lucas Ivorra, Loli Sànchez Lozano, Marco Basile, Allison Blahna, Fabio Rollo, Julie Rubino, Islam Elshaarawy, Jesse Chappelle
Shady Hamadi, Massimo Cozzolino, Karim Metref Abdallah, Pierfrancesco Majorino,Farid Adly, Davide Piccardo, Nabil Bey, Lorenzo Declich, Giuseppe Acconcia, Alessandro Di Rienzo, Elena Chiti, Rita Barbieri, Doris Zaccaria, Rosa Schiano, Rana Alnasr, Egidio Giordano, Maria Teresa Cudemo, Lorena Matteo, Alfredo Manfredini Bohm, Pietro Sabatino, Chiara Crispino, Luisa Ambrosio, Roberta Carvone, Federico Manes, Roberto Trisciani, Libera D'Amato


VESSILLIFERO ROSSO DELLA FALSE FLAG NERA - E Soros traccia il solco.

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Monaco 1938-2016
La sciarada è in enigmistica lo schema per cui unendo due parole se ne forma una terza: X+Y = XY. Capirai che impresa. Di conseguenza è anche il modo per dire di una chiacchierata che non porta a niente, si arrotola su se stessa. E quello che abbiamo visto a Ginevra, poi a Vienna, poi di nuovo a Ginevra e, ora, a Monaco. Con i gufi che già strillavano alla Monaco della resa, rianimando il patto di Monaco del 1939 con Chamberlain che avrebbe ceduto a Hitler, con le conseguenze immaginabili. A parte il fatto che gli anglosassoni, allora e fino a qualche anno dopo, speravano che la Germania di Hitler costituisse un baluardo contro l’assai più temuta URSS, e le si avventarono addosso solo quando divenne manifesto che quel baluardo si sbriciolava (e anche perché i tedeschi rompevano ai colonialisti inglesi in Africa), la Monaco dell’altro giorno rappresenta, come i negoziati precedenti, una sciarada. La chiacchierata finisce con un OK, vocabolo nuovo, ma con dentro le stesse parole di prima. 

I siro-irano-russi che avanzano e vanificano l’intero disegno del Nuovo Medioriente, gli statunitensi (con Israele sulla spalla destra) che non se la sentono di finire nel pantano in fase pre-elettorale, i francesi che non ce la farebbero mai da soli, i turco-sauditi che se la vedono proprio male, anche internamente, se tutto quanto hanno combinato in 5 anni, mettendo in piedi lo sfracello Nusra-Isis e appendici terroristiche, non portasse alla cancellazione perlomeno della Siria. Sono questi ultimi a spingere per l’intervento di terra. Ridicolo quello delle armate raccogliticce di Riyad, svaporerebbero al primo impatto con i ben altrimenti motivati combattenti patriottici. Lo si è visto in Yemen, dove, dopo un anno di bombardamenti a tappeto e di blocco genocida,  stanno sempre lì e subiscono i contrattacchi Huthi sul proprio territorio. Più credibile quello turco, seconda forza Nato dopo quella Usa, ma anche lì c’è da aver dubbi sulle motivazioni di soldati che vedono la propria gente a casa massacrata da uno pseudo sultano pazzo.

Così X dice basta bombardamenti, Y replica basta terroristi e XY resta a vedere cosa capita sul terreno. Con curdi, o divisi, o paraculi, un po’ con gli Usa, un po’ con Mosca e in ogni caso in fase di espansione su territori arabi; terroristi all’orecchio di Ankara e del Golfo che, scappando, gridano “prima via Assad”, Assad che, sacrosantamente, dice prima va liberata tutta la Siria, “ribelli moderati” che nessuno sa dove si trovino, ma figurano al primo posto nell’agenda occidentale. Intanto Aleppo e le vie del Nord e del Sud venngono sgomberate dalla feccia mercenaria e, al momento, ai colpevoli di tutta la tragedia non resta che attivare gli sguatteri mediatici perché frappongono ai giusti la muraglia dei "milioni di profughi siriani bombardati dai russi". Stiamo a vedere.

L’altra faccia della medaglia canaglia: assalto all’Egitto
Alla testa della falange macedone lanciata contro l’Egitto e contro i rapporti Italia-Egitto stanno i tre giornalon La Repubblica, La Stampa, il Corriere della Sera, voci del padrone  euro-sion-atlantico. Ma davanti a loro, brandendo il vessillo  della guerra al “dittatore sanguinario”, già serbo poi ripetutamente arabo, zampetta impettito il “manifesto”. Mentre, di fronte alla manifesta assurdità delle teorizzazioni sulla morte di Giulio Regeni, i giornaloni stanno abbassando gradualmente i toni, magari spostandosi sull’altro versante Cia-Mossad anti-arabo, quello di Aleppo e dei “bombardamenti russi sui civili”, il “quotidiano comunista” li innalza al diapason. Un articoletto arrivato in redazione a metà gennaio, viene riesumato, contro la volontà della famiglia (che ha la dignità di non prestarsi a basse manovre) e pubblicato il giorno dopo il ritrovamento del corpo. Tanto per ribadire che Regeni bazzicava con chi non era simpatico al regime e perciò dal regime è stato tolto di mezzo.

In queste cose Soros è una garanzia
E’ un enorme castello di sabbia che le più agguerrite firme del giornale vanno costruendo, con per punta di diamante il Fratello Musulmano Giuseppe Acconcia, anche lui, come Regeni, con retroterra “American University”, ma anche “Opendemocracy”  del bandito George Soros, nientmeno (e si capisce tutto). E se qualcuno va sospettando che l’accademico friulano di formazione anglo-americana possa essere stato una spia, un padrino come Acconcia non è figura da attenuare tali sospetti. Fondamenta dell’edificio di sabbia, muri portanti e architravi, sono composti da capisaldi lessicali della giurisprudenza come “potrebbe”, “sarebbe”, “probabilmente”, “forse”, “secondo testimoni”, “sembrerebbe”. Misero brecciolino che la prima onda pulita si porta via.

George Soros

Mentre si arrampica sugli specchi della totale mancanza di prove per le sue accuse al presidente egiziano Al Sisi, il forsennato colpevolista a tutti i costi, con un calcolo delle probabilità tutto virtuale, finisce col trarre sostegno alla sua tesi preconfezionata dell’”assassinio dell’oppositore” dalla “provata dimensione orripilante della repressione di regime”. Se non è stato Al Sisi in persona a strappare le unghie a Regeni, saranno stati i suoi sgherri, o i suoi corpi separati. Massimo impegno, nella costruzione dell’eroe e martire sbranato dal mostro golpista, viene dato alla caratterizzazione della vittima come militante di sinistra, temerario oppositore che doveva celare la paternità dei suoi articoli (cosa che in Egitto nessuno dei pur virulenti critici del governo fa), era costantemente preoccupato, che si trovava tra tanti oppositori diretto alla celebrazione dell’anniversario della rivoluzione e fu vittima di una retata…. 

Tutto falso, smentito dai genitori e frettolosamente rivisto inventando una serata che avrebbe dovuto trascorrere con il suo tutor dell’American University per discutere del dottorato sui sindacati. Ma anche questo puntello al castelluccio di sabbia si sgretola  perché il giovane, quando è stato rapito, stava andando semplicemente a una festa. Si ripiega sulla sua militanza, del tutto presunta, con i sindacati “indipendenti” (islamici), dove, forse, qualcuno l’avrebbe fotografato. Embè, se qualcuno l’ha fotografato alla riunione dei sindacati, non si scappa: Al Sisi lo voleva morto e torturato. Elementare, Watson.

Esagerando si prendono cantonate
Il “manifesto” deve la sopravvivenza alle pubblicità, alle sovvenzioni di Stato e agli inserti di campioni del bolscevismo come Eni, Enel, Telecom, Coop. Gli deve evidentemente qualche riscontro. In questo caso un accanimento forcaiolo sul cattivone di turno che, però, gli annichilisce i neuroni e gli fa credere che quella di non far sparire una vittima del regime in un mistero insondabile per sempre, ma di farla trovare morta ammazzata e seviziata in piena vista, lungo l’autostrada, praticamente  con il dito puntato sul capo dello Stato, è la conferma che quel dito punta bene. E che quindi Al Sisi, oltre a essere una belva antropofaga, è anche fesso.

Il sogno  del Fratello Musulmano

E qui, il giornaletto, vetusta mosca cocchiera delle opposizioni di Sua Maestà, toppa alla
grande. Interpreta la scomparsa di Regeni il 25 gennaio, anniversario di Tahrir, come taffaziana manifestazione di protervia del regime. L’ideuzza che, magari, un rapimento in quella data poteva essere l’astuta trovata di chi al regime voleva assestare un bel colpo, non gli balena. E se gli balena, viene subito cacciata. Perché qui siamo all’inettitudine giornalistica potenziata dal pre-giudizio programmato in sintonia con i grandi burattinai della riconquista coloniale. Ma, a proposito di Eni e compagnia mercante, se la combriccola di Acconcia intendeva compiacere i potentati nostrani di quella riconquista, ha toppato ancora di più. Non si è accorta, non si è voluto accorgere, che il ritrovamento del corpo torturato il 3 febbraio è un’altra coincidenza. C’era al Cairo, proprio quel giorno, la ministra dello Sviluppo Economico, Guidi, e con lei sostavano famelici alle porte del governo i dirigenti di Confindustria, Sace e di 60 imprese italiane. Si trattava di definire i dettagli degli accordi per sette e passa miliardi conclusi quando Renzi visitò Al Sisi. E, guarda il caso, la coincidenza con l’orribile ritrovamento ha fatto sospendere l’incontro e rientrare a casa la delegazione. Il “manifesto” non l’ha notato. I neuroni si
sono voltati dall’altra parte.

Niente valzer con arabi. Moro e Mattei l’avevano appreso sulla loro pelle

Per il momento restano sospesi, non solo i grandi affari che il primo partner europeo e terzo mondiale dell’Egitto contava di concludere. Ma, toh, proprio all’ENI , grande inserzionista del “manifesto”, addirittura con osceni inserti che magnificano le trivellazioni in Basilicata, è toccato il contraccolpo peggiore. Era stata l’Eni ad aver scoperto al largo dell’Egitto il più grande giacimento di gas del Mediterraneo, lo Zhor. Questo non solo avrebbe contribuito all’indipendenza dell’Italia da altre fonti energetiche (in particolare da quella imposta dagli Usa con il gasdotto dal suo protettorato Azerbaijan, il famigerato TAP che minaccia di devastare il Salento) e avrebbe dato forza e prestigio alla compagnia di Stato, ma avrebbe assegnato al partner egiziano un ruolo geopolitico e una prosperità economica senza precedenti. La storia, i corsi e ricorsi di Vico, si ripete, si sa. E pare proprio essere tornati ai tempi dell’Eni, di Nasser, di Mossadeq in Iran, di Aldo Moro minacciato dall’israelita Kissinger. Roba astrusa per il “manifesto” di Rangeri-Acconcia, buchi neri, per stareà la page.

Altro che la bancarotta economico-sociale dell’iperliberista Fratello Musulmano Morsi tenuto in piedi dai soldi del Qatar, corredata da una repressione di sindacati e opposizioni laiche e socialiste a forza di sharìa e carcere, che Acconcia ha trasformato in felice democrazia. Piacevolezze che hanno sollevato contro il padrino del jihadismo wahabita venti milioni di egiziani, sulla cui collera sono poi andati al potere i militari, con Al Sisi che ha vinto le successive elezioni. La risposta dei FM? Un’ondata terrificante di terrorismo dal Sinai a tutto il paese. Più una pioggia di paracadutisti del Battaglione Acconcia.
A chi poteva andare di traverso un simile sviluppo?  Accompagnato anche dall’intesa italo-egiziana per una soluzione della crisi libica che consistesse, in prima, necessaria, linea, nella sconfitta del tumore jihadista incistato a Tripoli, Misurata (gli stragisti del popolo nero di Tawarga) e a Sirte e Derna, con l’Isis trasferito da Siria e Iraq, sui traghetti dei soliti sponsor, invisibili ai controllori di ogni canotto che galleggi da quelle parti, per occuparsi dei terminali petroliferi.

Poteva infastidire, e alla grande, coloro che si sono accaniti contro il turismo egiziano, 20% del PIL (ora ridotto al 14%) con gli attentati in serie nei resort delle vacanze; che hanno abbattuto il Metrojet russo con i suoi 224 passeggeri reduci da Sharm el Sheik; che alimentano, da Israele e dalla Saudia, il terrorismo nel Sinai; che, avendo trovato un gran lago di gas tra Israele e Cipro (subito sottratto ai palestinesi di Gaza), pensavano di avere conquistato il rubinetto energetico della regione; che si erano molto preoccupati del raddoppio del Canale di Suez realizzato da Al Sisi e che prometteva di tirare l’Egitto fuori dalle secche della crisi; che, impegnati a demolire la presenza statuale nazionale, laica, panaraba in Siria, Iraq, Yemen, dopo aver disintegrata quella libica, mal tollerano gli ultimi bastioni resistenti in Nord Africa, Egitto e Algeria. Per il momento non si parla di Sudan, uno perché già sistemato con la secessione del Sud petrolifero organizzata da Israele, Usa, Vaticano e comboniani, e con le turbolenze innescate nel Darfur, due perché Khartum non dà più, per ora, segni di insubordinazione.

Ma più di tutto questo irritava la prospettiva di un’Italia, naturalmente proiettata verso il mondo arabo, privata dalle sanzioni e dai blocchi di oleodotti (il South Stream che la Nato ha ordinato alla Bulgaria di stoppare) dei proficui rapporti con la Russia, che si rifa attraverso intese reciprocamente benefiche e tonificanti con l’Egitto . Da qui la carica suonata dai soliti noti dell’empireo al proprio mercenariato dei media e delle Ong dei diritti umani (e Soros paga): Al Sisi come Kim Yong Un, Milosevic, Gheddafi, Saddam, Assad, ovviamente  lo “Zar” di Mosca, Barbablù.  Questo eterno pallottoliere delle atrocità attribuite al leader del paese di turno da squartare, risulta a distanza di tempo ripetitivo, stereotipato e perlopiù finto e falso. Se anche qualche pallottola fosse genuina, il punto non è questo, ma lo è l’intento criminale di coloro che snocciolano il pallottoliere. Ma Giulio Regeni è stato una trovata nuova. Ben confezionata in ogni dettaglio.

Insomma, non bastando le contumelie lanciate contro il dittatore golpista da settori sempre più ridotti e poco credibili, da poveri Acconcia, ci si è risolti al solito colpo grosso, tipo Parigi, tipo Colonia, tipo Boston. Un primo avvertimento: l’attentato al consolato italiano del Cairo. Quindi il ragazzo italiano, metamorfizzato in un piccolo Che Guevara, finito nella gabbia e poi nelle fauci dell’orco. Orco egiziano, arabo, laico, che fa costruire infrastrutture e centrali nucleari ai russi (proprio come Nasser con gli omonimi lago e diga) e concorda con Xi Jinping grandi interventi cinesi, si presta a sradicare il carcinoma jihadista in Libia (l’unico che può farlo, con ciò minacciando le bande di ventura dell’Occidente, fondamentali alibi per guerre e repressioni interne). Insopportabile.

Giulio Regeni, alla prova dei fatti e della logica, non è l’oppositore falciato da uno spietato tiranno, non è Pietro Micca e neppure Gaetano Bresci, come ce lo vorrebbe far sognare Acconcia. E’ l’inconsapevole mina di chi vuo far saltare il rapporto Italia-Egitto, affidata dall’alto a una manovalanza probabilmente dei Fratelli Musulmani.. E’ una mazzata-avvertimento mafioso ad Al Sisi. E’ una tirata d’orecchi a Renzi. Per l’unica cosa buona che ha fatto in tutta la sua vita politica. E di cui il merito, come ai tempi di Mattei, va a chi fa da sempre la politica estera non subalterna dell’Italia, all’Eni. Che tiene in vita il “manifesto”. Ingrati!

MESSICO, ANGELI E DEMONI NEL LABORATORIO DELL'IMPERO

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In allegato copertina e manchette del docufilm"MESSICO, ANGELI E DEMONI NEL LABORATORIO DELL'IMPERO"
 
La visita del Papa ha riportato alla ribalta il Messico, uno dei paesi più devastati del mondo. Mentre Bergoglio stringe la mano al presidente Pena Nieto e si diverte con lui indossando un sombrero, 13 persone inerme sono state uccise dal narcotraffico.
Il Messico è totalmente alla mercè delle multinazionali Usa e del Pentagono che è presente con le sue forze speciali e assiste l'esercito, la marina e l'aviazione messicani nella cosiddetta "guerra al narcotraffico" che non è che il pretesto per militarizzare il paese e reprimere, a forza di stragi (vedi i 43 studenti dello Stato di Guerrero), ogni insubordinazione sociale.
 
Con il NAFTA,, trattato di libero scambio firmato nel 1994 tra Usa, Canada e Messico, modello del TTIP in preparazione tra Usa ed Europa, il Messico ha svenduto la sua sovranità, l'ambiente, i diritti dei lavoratori, la legalità repubblicana. Il TTIP prepara un destino ancora più nefasto all'Europa.
Presidenti come Calderon e Pena Nieto sono padrini e complici del narcotraffico che imperversa impunito da un capo all'altro del paese.
 
Mentre nel mondo le donne si mobilitano per il "Giorno del Miliardo" contro la violenza sulle donne, in nessuna occasione si parla delle principali vittime delle guerre Nato, dal Medioriente all'Africa e all'Asia, che sono le donne. Nè si parla del Messico, capitale mondiale del femminicidio.
Il Messico è nostro alleato nella cosiddetta "Comunità Internazionale"
 

Il Nafta ha prodotto 56 milioni di poveri, il 47% della popolazione, 27mila sono le sparizioni forzate da quando Pena Nieto è presidente, 120mila sono i morti ammazzati sotto le presidenze di Calderon e Pena Nieto, al 92% rimaste non indagate e impunite. 109 sono i giornalisti uccisi, 20 gli scomparsi, 4000 le denunce di torture negli ultimi 14 anni. Dal 2005 al 2014 sono scomparse 4.300 donne. Nel solo stato di Città del Messico vengono uccise 7 donne al giorno. Il governo effettivo del territorio è in mano ai cartelli dei narcos, nel pieno consenso delle amministrazioni e del governo.
 
Tutto questo viene nascosto sotto le celebrazioni per la visita del papa che, sì, denuncia il narcotraffico, ma non fa riferimento ai suoi complici statali interni e statunitensi, che comprendono una gerarchia ecclesiastica in perfetta simbiosi con il potere.
 
Tutto questo e molto di più è documentato e illustrato nel docufilm di 90'"MESSICO, ANGELI E DEMONI NEL LABORATORIO DELL'IMPERO", l'unico documentario italiano e, forse, europeo, che racconti questo Messico, alla mano di testimoni, vittime, protagonisti della resistenza politica e sociale, viaggiando dal Nord di Ciudad Juarez, al cuore della ribellione popolare in Oaxaca, al confine con il Guatemala da dove invadono il Messico centinaia di migliaia di migranti in fuga dai loro paesi saccheggiati dagli Usa, per diventare manovalanza dei narcos, morire, o finire sparati dalle guardie su entrambi i lato del muro tra Usa e Messico. Il film prefigura cosa sarà l'Italia se passa il TTIP.
 

IL film si può richiedere scrivendo a visionando@virgilio.it.

NATO-SIRIA: BLUFF O SALTO NEL BUIO? REGENI-EGITTO: ALTRO CHE AL SISI, JOHN NEGROPONTE!

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Scherzano, o preparano l’apocalisse?
In molti esprimono, sui recenti movimenti degli aggressori della Siria, un’opinione “moderata”, come dire, non allarmistica, tutto sommato ottimistica. Il pandemonio scatenato sui bombardamenti degli ospedali non sarebbe che la ripetizione di vecchie provocazioni false flag per mettere in difficoltà i russi. Gli Usa, visti come divergenti rispetto agli indemoniati cani da guerra turchi e sauditi, premono per tirare il fiato, la Merkel spara a salve con la sua richiesta di una no-fly zone attorno al confine, dato che gli europei non la seguono e il suo soffietto ai latrati di Erdogan sarebbe solo un trucco perché il nazisultano blocchi  a casa sua i rifugiati. Altri si sentono rassicurati dal fatto che “oggi il mondo sa che sul campo siriano ci sono anche i terroristi” (ci sono solo quelli!) e danno la colpa ai gruppi terroristi della mancata accettazione di cessate il fuoco che Putin e Obama avrebbero concordato.


Se fosse così, ci sarebbe in effetti da stare relativamente tranquilli. Ma a me non pare affatto così e non credo neanche che i “gruppi terroristi” abbiano quell’autonomia, quella libertà di autodeterminarsi, che gli permetterebbe di impedire le tregue. Pare invece che i gruppi terroristi, salvo forse qualche frangia irrilevante costituitasi su base locale o tribale, siano dall’inizio ad oggi e sempre agli  ordini diretti di chi li ha inventati, reclutati, foraggiati, armati e spediti sul campo. Cioè di Turchia, Arabia Saudita, Qatar e principotti petroliferi minori. E, arrivando al quartier generale e risalendo per li rami, di Nato, Usa, Israele, Cupola militar-finanziaria occidentale. La stessa roba tossica che sta dietroall’operazione Regeni. D’accordo che quelle di Monaco, Ginevra, Vienna, con le conseguenti manifestazioni di ragionevolezza dei vari attori, sono commedie. Ma sono commedie che distraggono dalla tragedia da mettere in scena.

L’incontro di Monaco, con il controcanto dei latrati di Turchia, Saudia e milizie surrogate, non è che un diversivo. Come lo sono le bombe sugli ospedali. Come lo erano gli attacchi dei terroristi con gas turchi, attribuiti ad Assad, a Est Goutha, che dovevano scatenare un’offensiva finale di tipo libico. Come lo è l’assordante can can – dignitoso in sé. ma degradato dall’uso strumentale – sulle unioni civili, di genere, con adozione di figliastri, a copertura del retroterra bancario delinquenziale dei vertici del nostro governo, del colpo di maglio “bail in” a quanto resta di capacità di sopravvivenza dei cittadini, della crisi 2.0 ora lanciata per finalizzare il sociocidio e per trasferire in cima alla piramide gli spiccioli che quella precedente ci aveva lasciato in saccoccia. Prima spennati, ora divorati.
Giulio Regeni lavorava per  il Charles Manson del Dipartimento di Stato
John Negroponte

Come lo è, in maniera sempre più lampante, l’affaire Regeni, del quale ora, con grave imbarazzo dei corifei dell’ “eroico militante democratico trucidato da Al Sisi”, spunta un’altra militanza. Davvero sconvolgente. Quella del lavoro a tempo pieno alla “Oxford  Analytica”. Cos’è? Andate a vedere in internet e troverete una di quelle sporche agenzie di intelligence private, dette di “consulenza”, che lavorano per governi e multinazionali e se ne assumono le porcate sotto la copertura di operazioni commerciali. “Oxford Analytica”, fondata da un assistente di Henry Kissinger, diretta dall’ex-capo dei servizi segreti di Londra, Colin McCole, ha per Amministratore Delegato, roba da far rizzare i capelli, John Negroponte, una belva subumana che ti fa venire in mente colui che nel Medioevo veniva rappresentato come Satana. Bella gente, i colleghi di Giulio.

Negroponte è probabilmente il serial killer grondante più sangue tra quanti l’apparato terroristico di Stato Usraeliano ha saputo mettere in campo contro milioni di civili inermi di cui alleggerire la Terra. Inventore e gestore di squadroni della morte in mezzo mondo, soprattutto in Centroamerica, padrino dei Contras e macellaio dell’Honduras, e poi in Iraq nell’occupazione del 2003, è un simbolo vivente della misura di ferocia e sadismo esercitata dagli Usa su popolazioni innocenti da rimuovere. Guido Rampoldi,Voice of America trasferitasi da La Reppublica a Il Fatto, esalta lo “straordinario ragazzo Regeni e la sua straordinaria lezione”. Non so se la la straordinaria lezione di Regeni sia quella di far carriera sotto belve subumane come l’israelita Negroponte. Sicuramente una lezione straordinaria è quella che riceviamo dallo stesso Negroponte se è vero, come è probabile, che il giovane adepto di questa banda di malaffare, forse inconsapevole, forse no,  può essere stato sacrificato ove si trattava di mettere in difficoltà un leader importuno, troppo autonomo, troppo ricco di gas, troppo amico di Putin e dei patrioti libici. Non ci mettono niente a buttare i loro per la causa. Pensate ai 3000 delle Torri Gemelle.

Ci conforti la certezza che anche questa notizia alla nitroglicerina lascerà indisturbati, nella morta ma turbinosa gora delle loro mistificazioni, i vari Acconcia (il manifesto), Coen e Rampoldi (Il Fatto), Molinari (La Stampa), Bonini (La Repubblica), il piccolo vendolino da sinagoga Oggionni (Huffington Post) e tutta la compagnia cantante della voce del padrone a stelle e strisce e croce di David (e svastika a Kiev).   

A proposito di Leonardo Coen de Il Fatto, diventato su Regeni uno specialista di condizionali, che scoppiettano nei suoi pezzi come fuochi d’artifizio e tutti abbagliano – potrebbe, saprebbe, direbbe, avrebbe, andrebbe  – nell’ incidere sulle sacre tavole del Sinai, di cui è cromosomicamente assertore, la colpevolezza del Videla egiziano, ha coronato il suo trambusto polemico anti-Assad e anti-russo con questa perla di inversione giorno-notte: “La più inquietante di tutte le manovre russe è stata la Trident Juncture dell’ottobre 2015, in cui la Russia ha mobilitato 35mila uomini. La più grande mai effettuata dal crollo del muro di Berlino. Ecco, la Siria è anche questo”.  E non ha mancato usato il congiuntivo. Era, come sa perfino Acconcia, esercitazione Nato. Quando si dice Taffazzi. Ma Marco Travaglio, padre nobile di tutti i giornalisti, uno così se lo tiene perché sennò a Tel Aviv s’incazzano?

 Anche i migliori prendono - o fanno - cantonate
A questo proposito, duole vedere precipitare a testa in giù nella detta palude una persona che per ogni altro verso ha meritato negli anni la nostra stima e amicizia. Giorgio Cremaschi, nel formulare la piattaforma per una prossima manifestazione contro la guerra alla Libia e tutte le guerre in corso e in preparazione, ha voluto, con scarso senso del congruo, inserirsi nel coro dei bastonatori del “Videla egiziano”, con tutti i relativi elementi di raggiro dell’opinione pubblica, con sentenze pronunciate prima di aver accertato il minimo elemento probabante, sulla falsariga dell’isteria trotzkista e nella scia degli amici del giaguaro imperialista. Provocatori e spie che, fin da una primavera araba vera, ma poi corrotta dai mercenari della Fratellanza Musulmana e dai soliti manipolatori “colorati”, lavorano alla disintegrazione dell’ennesima realtà statuale non inserita nell’orbita del padrone. I benevoli parlano di persone che hanno perso ogni bussola politica. Fosse così, ci sarebbe da sperare in ravvedimenti sulla base di informazioni e della logica. Ma informazioni e logica sono là, grandi come la catena del Karakorum. E allora vuol dire che la bussola ce l’hanno. Solo che hanno scambiato i punti cardinali.

Fuochi d’artificio o redde rationem?

Ma torniamo a bomba. In ispecie alle bombe sugli ospedali di Aleppo e Azaz che, dimostrate non russe dai russi (la nave russa lanciamissili che, secondo i pappagallini mediatici, dal Mar Nero avrebbe lanciato i missili contro quelle cliniche, nel Mar Nero non c’è proprio), hanno un’origine più probabile nelle batterie di artiglieria turche che da 5 giorni martellano il nord-ovest della Siria a sostegno dei terroristi Al Nusra e affini, incalzati dalle offensive curda e siriana. Qualcuno argomenta che Erdogan e i suoi alleati sauditi, entrambi in ambasce di fronte allo sfaldarsi del moloch wahabita incaricato di far fuori Siria e Assad, siano sfuggiti al controllo dei maestri Nato e Usa. Che Obama, di fronte agli Stati Uniti tracimanti di poveri e sull’orlo della recessione, rilutta a chiudere con un costoso intervento a terra due mandati che, già così come sono, ne hanno fatto il presidente più sanguinario della storia americana.

Sarà anche così. Ma non è, in ultima analisi, Obama colui che decide. Decidono coloro che ce l’hanno messo. Come, a colpi di centinaia di milioni, mettono nella Casa Bianca, a capo della “più grande democrazia”, tutti i presidenti. E se qualcuno vuole fare il Robert Kennedy, muore. Ci sono, comunque, sviluppi in queste ore che rendono opinabile l’ipotesi degli Usa in attrito con i subordinati sul posto e che, anzi, paiono indicare il pieno impegno del moloch occidentale a guida Usa per un’escalation che a tutti i costi impedisca la vittoria russo-siriana andatasi profilando e, con essa, uno stravolgimento dell’assetto geopolitico esistente e, soprattutto, di quello programmato insieme a Israele da anni, se non decenni.

Un punto che resta aperto è quello dei curdi. Fanno pensare ad Arlecchino servitore di due padroni. Quali, unitisi nelle Forze Democratiche Siriane con certi rimasugli di quello che era il Free Syrian Army, si fanno appoggiare dai bombardieri Usa e gli cedono aeroporti all’interno della Siria nord-orientale da usare contro Assad. E quali sono sostenuti da Mosca e, occupando la striscia di confine fino all’enclave di Azaz, si adoperano per impedire che i turchi vi costituiscano l’ambita zona-cuscinetto e No-Fly Zone (ma anche qui pare che siano coadiuvati da Forze Speciali Usa). Entrambi danno il mal di pancia al folle di Ankara, ma intanto si appropriano di territori arabi e, oggettivamente, si inseriscono, come già in Iraq, nel progetto di smembramento del paese. Un storia maledettamente equivoca, su cui incombono anche figure abiette come Barzani, il boss iracheno, o ambigue come l’Ocalan dell’accomodamento con Erdogan.
 Curdi YPG e ratti siriani

Una flotta Nato da guerra per salvare profughi?

L’alleanza Usa-Nato, pretendendo di dare una mano all’Europa nella questione profughi (dall’alleanza stessa innescata e pianificata per tagliare le gambe all’Europa), spedisce una flotta di guerra nel Mediterraneo orientale. Mobilitazione per la guerra, fatta passare per salvataggio di profughi su cannotti e punizione dei loro scafisti (introvabili perché al sicuro nell’ hinterland turco sotto protezione del sultano organizzatore dei flussi e ricattatore di Bruxelles). Se il regime change a Damasco, che tanti sforzi, tanti rastrellamenti di mercenari, tanti soldi e tante balle ha impegnato, va per le lunghe e minaccia di non avverarsi, Turchia e Nato sembrerebbero pronte a giocarsi il tutto per il tutto. Così Jens Stoltenberg, segretario-marionetta della Nato, annuncia al vertice di Bruxelles che lo Standing Maritime Group 2, appena reduce da esercitazioni con le forze armate turche, verrà impiegato nell’Egeo, “per monitorare e sorvegliare gli attraversamenti illegali”, ma anche “perpattugliare e raccogliere intelligence sul confine turco-siriano”. E’ la seconda che hai detto.

Non è una sparata per far sapere in giro che l’Occidente non se ne resta con le mani in mano, mentre turchi e sauditi, da soli, sono costretti a salvare quel che resta dell’armata jihadista. L’ordine della spedizione è venuto direttamente dal generale Philip Breedlove, comandante supremo della Nato, uno che da tempo minaccia di azzannare i polpacci dell’orso russo. E quella dell’Egeo non è una flotta per racattare naufraghi. Vi partecipano Germania, Canada, Grecia e Turchia e “quello che andiamo a fare è un lavoro militare”, ha precisato Breedlove. Infatti, qui non si tratta di battelli guardiacoste. Si tratta di pesanti navi da guerra, di classe superiore a incrociatori e corazzate, munite di armi anti-aeree, anti-navi, anti-sommergibili e anti-missili. Non per nulla il gruppo viene chiamato “Forza di reazione rapida”.


Anche Ash Carter, ringhioso ministro della Difesa Usa, era presente al vertice che ha deciso la nuova missione ”umanitaria”. Nelle parole della BBC: “Questa decisione segna il primo intervento dell’Alleanza nella crisi europea dei migranti”, incaricata di colpire le associazioni criminali che gestiscono il traffico di carne umana. Una flotta di poderose navi da guerra che andrebbe a scovare a terra gli imprenditori e manager del traffico, di cui anche i bambini, trasferiti sotto attento occhio turco dal confine siriano alle coste dei gommoni, prima di annegare, sapevano che chi organizzava tutto era un sultano intronato ad Ankara. Non arrivavano, forse, a capire che quello lì era poi solo l’esecutore di un’operazione destinata a sconvolgere l’Europa, indebolirla, tenerla al guinzaglio. Significativo poi che, in prima linea, ci sia una solitamente tiepida Germania, con Angela Merkel che giorni fa si è precipitata a raddrizzare la spina dorsale a Erdogan, potenziando l’ormai assordante propaganda Nato dei russi che massacrano i civili siriani.


Il pesce-pilota mediatico del partito della guerra, il New York Times, voce dell’integralismo bellicista israeliano, ha fatto una stupefacente ammissione:”I russi hanno tagliato molti dei sentieri che la Cia ha utilizzato nel suo sforzo di armare i gruppi ribelli”. Si sapeva, e ancor più si sapeva dei turchi, ma della Cia non era mai stato ammesso in termini così espliciti. E non è stato il ministro della Difesa dell’entità sionista, Aalon, a dichiarare che ad Assad e all’Iran preferisce nettamente l’Isis? Preferenza condivisa anche dall’omino coi baffi Bialetti, il premier turco Davutoglu. Perdendo la sua guerra coperta contro la Siria a causa dell’intervento dell’arcirivale, pur assediato in tutto l’est europeo, Washington, secondo il NYT, è costretto a prendere in considerazione il “Piano B”, cioè un “impegno militare molto più grande contro Assad”. Le frustrazioni di Arabia Saudita e Turchia, diventano quelle degli Usa e, quindi, della Nato. Può darsi che siamo a un’impennata propagandistica. Oppure al redde rationem. 

GRIMALDI VERSUS CREMASCHI e viceversa

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Inoltro un amichevole ma rigoroso scambio epistolare tra me e Giorgio Cremaschi su temi che agitano i preparativi per la prossima manifestazione contro la Nato e le guerre, a partire dall'appello formulato da Eurostop. Credo che possa stimolare riflessioni e prese di posizioni.
Fulvio



From:Fulvio
Sent: Friday, February 19, 2016 12:37 PM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

E grazie anche a te, caro Giorgio, con queste premesse sono sicuro che marceremo ancora insieme, anche se guardando a volte verso orizzonti diversi.
Però una cosa: che da sindacalista verresti ucciso in Egitto viene smentito proprio da Regeni, che frequentava riunioni, assemblee e personaggi dei sindacati, soprattutto di quelli detti "indipendenti". Tutti ancora vivi e attivi pubblicamente. Semmai i sindacati e gli operai vennero perseguitati, fino alla proibizione di tutti gli scioperi, dal Fratello Musulmano Morsi.
Sul povero Regeni, vorrei chiedere a te a tutti i media che ne esaltano le virtù di militante per la democrazia e i diritti umani, cosa ci facesse a lavorare a tempo pieno in una ditta privata britannica di spionaggio (lo chiamano "consulenza per multinazionali e governi"), "Oxford Analytica", retta dall'ex-capo dei servizi segreti britannici e da John Negroponte, il serialkiller di massa che imperversava con i suoi squadroni della morte contro le popolazioni civili dell'America Latine dell'Iraq.
Un abbraccio,
Fulvio

Sent: Friday, February 19, 2016 10:21 AM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

Caro Fulvio, 
Grazie della risposta argomentata, su cui studierò e rifletterò. Il senso della mia lettera risentita era quello di eliminare i sospetti e gli anatemi che ci sono tra compagni che stanno dalla stessa parte della barricata, anche se hanno giudizi e valutazioni diverse su temi molto importanti. Il disastro delle sinistra radIcali italiane deriva secondo me dalla incapacità e non volontà, per opportunismo, di praticare rottura e unità. Formula a parole semplice, ma in realtà di difficilissima realizzazione, pare.. Bisogna avere il coraggio di rompere davvero con il sistema di potere ed i suoi complici, e costruire l'unità tra tutte le forze e le persone che questa rottura fanno, al di là delle differenze. 
Invece c'è chi fa unità quando si deve rompere e rompe quando si deve unire. Purtroppo le nostre forze oggi sono poche e quindi ogni incidente fa danno amplificato... Nella sostanza rivendico la correttezza di una posizione che è contro la guerra e  la NATO senza stare con Putin e senza avere la paura di essere considerati vicini a Putin. Capisco che tu la consideri inadeguata, ma sta a te decidere se questa è comunque una condizione sufficiente per stare assieme contro la NATO oppure no. 
Sul caso dell'assassinio del povero Giulio Regeni: può essere che egli sia vittima di giochi e complotti sporchi su gas e patrolio, come tanti in quel mondo, ma una cosa so per certo, e qui ti prego di tenere conto del mio istinto che nasce dalla esperienza. Se facessi il sindacalista con le mie idee e i miei valori in Egitto, sarei sicuramente ucciso dal potere.. Capisci che questo per me un poco conta...
Comunque avremo tempo e modo di discutere...intanto ti sollecito a partecipare comunque anche con i tuoi giudizi critici alla mobilitazione del 12 marzo..Anche perché contro la NATO e la guerra in Italia per ora non c'è altro, confermo l'amicizia, 
Giorgio 

Ps Nessun problema a rendere pubblica la nostra corrispondenza 
Inviato da iPad

Il giorno 18 feb 2016, alle ore 15:05, Fulvio <fulvio.grimaldi@gmail.com> ha scritto:
Visto che i temi di questo dibattito coinvolgono molte persone, posso pubblicizzare il nostro scambio sul mio blog?
 
Caro Giorgio,
rispondo alla tua garbata ed amichevole risposta alle mie altrettanto amichevoli, ma meno garbate, osservazioni sul documento Eurostop che hai contribuito a redigere in vista della manifestazione contro la Nato e contro la guerra.
 
Pur memore della nostre tante, annose, comuni, battaglie e pur conservando intatto la stima e l'affetto che da sempre nutro per te, non ti nascondo che il tono veemente del mio testo è dovuto alla costernazione per averti visto cadere, con grande enfasi poi, nella micidiale trappola allestita attorno al povero Regeni, ora scoperto un po' meno eroe e martire della democrazia e un po' più collaboratore di una sporca agenzia privata di intelligence britannica, capeggiata dall'ex-capo dei servizi segreti di Londra e, udite udite, da John Negroponte, l'inventore degli squadroni della morte in Centroamerica, l'uomo dei Contras, lo stragista dell'Iraq, uno dei più fetidi arnesi dell'imperialismo. Con ogni evidenza e con molta maggiore evidenza del contrario, Regeni è stato utilizzato da questa marmaglia per un terrificante colpo contro  l'Egitto uscito dalla morsa fondamentalista e filo-Usa dei Fratelli musulmani (con annessi terroristi Isis), finanziati dal Qatar, con quel Morsi, "democraticamente eletto" da un'infima minoranza di egiziani, oltre tutto ricattata dall'assistenzialismo-clientelismo della Fratellanza, una roba alla Achille Lauro. Elezioni, poi, boicottate dalla maggioranza degli egiziani alla luce di come la Fratellanza le stava manipolando. Quel Morsi che ha mandato i suoi a perseguitare i cristiani copti, a bruciarne le case e le scuole, che ha proibito gli scioperi, sparato sulle manifestazioni e finito per mandare in rovina l'economia egiziana.
 
Questo ricordo, non per esaltare colui che con un colpo di Stato, sostenuto però da milioni di laici egiziani, è poi arrivato al potere. Il modo in cui governa Al Sisi, al netto della propaganda demonizzatrice delle lobby sioniste ed imperialiste impiegata pari pari nei confronti di tutti i leader di paesi da sfasciare e rapinare, non è qui il punto. Il punto è geopolitico. Ed è lo stesso punto che riguarda Putin. Dato per scontato che Putin ha preso in mano un paese depredato, venduto, saccheggiato dalla cosca di oligarchi sotto Elsin, manovrata dagli Usa, lo ha rimesso in piedi economicamente, militarmente, socialmente e geopoliticamente, ha ricostituito un salutare equilibrio di potere contro la pretesa del dominio unipolare guerrafondaio e fascistizzante imposto dagli Usa, cosa che gli garantisce l'80% del consenso dei cittadini russi (elemento che un comunista dovrebbe valutare), sappiamo tutti che non si tratta di un socialista, tantomeno di un comunista. E questo può dispiacere. Ma da qui a scrivere appelli in cui si mettono sullo stesso piano "gli opposti imperialismi", "lo scontro di potenze", con perfetto cerchiobottismo e scarso realismo, significa mistificare e depistare. Significa disarmare l'opposizione all'imperialismo unico e dominante, quello Usa, con sotto, ma proprio sotto, il subsistema vassallo europeo (cui tanta, eccessiva, indebita, importanza danno i familisti della Rete dei Comunisti). Non so cosa intendi per "avversario strategico", visto che la rivoluzione socialista non è all'ordine del giorno e all'ordine del giorno è invece un nemico strategico (contraddizione principale) che non solo esprime il massimo del capitalismo imperialista, ma che disintegra il diritto internazionale e prepara l'apocalisse mondiale. Di fronte a imperialismo e colonialismo, oggi nuovamente e più che mai all'offensiva, non condivido l'interpretazione derogatoria del termine "nazionalista". Nazionalista non significa fascista. Nazionalisti erano i rivoluzionari cubani e tutti coloro che si sono battuti nei movimenti di liberazione, appunto, "nazionale". Mi mancano proprio gli elementi di fatto e ideologici per accusare Putin di nazionalismo nel senso che dici tu. Perchè difende il popolo russo dalla manomissione nazista in Donbass?
 
Qui siamo, purtroppo, oltre,  o di lato, alla lotta di classe. O siamo in una lotta di classe che non è più tra ceti categorizzati alla vecchia maniera. Se lotta di classe è, è quella tra un'élite genocida imperialista, che ha il proprio cervello a Wall Street e soci capital-imperialisti o feudal-imperialisti sparsi ovunque e il proprio strumento militare nel Pentagono e, sulla sponda opposta, i popoli delle metropoli e del Sud del mondo. E qui non distinguere tra Usa e Russia confonde davvero le idee e rende un grosso favore agli Usa, deprivandoli di un'opposizione universale consapevole. Qui, caro Giorgio, si tratta in primis di sopravvivenza del genere umano e del pianeta con tutte le sue vite. Non schierarsi con la parte che, piaccia o non piaccia, si oppone al moloch, vuol dire rendersi inutili. Lo insegnano sia Lenin che Marx. E abbiamo una Russia, circondata da 8000 basi Usa e Nato, che interviene in difesa di uno Stato laico, relativamente prospero, socialmente equo, sovrano, anti-israeliano e antimperialista, contro gli Usa che capeggiano e guidano, anche con lo strumento orrendo del terrorismo, la peggiore e più reazionaria e fascistica banda di governi presenti sul pianeta. Non schierarsi con chi difende il diritto internazionale, la sovranità degli Stati, i popoli aggrediti, è atteggiamento assai gradito dagli antropofagi dell'Occidente.
 
Se non altro, dovrebbe suscitare qualche dubbio trovarsi fianco a fianco, come succede agli spiaggiati di un pervertito trotzkismo, su Regeni, su Gheddafi, Assad, Saddam, Putin, Tehran, con i più truffaldini protagonisti dell'inganno universale, con il menzognificio dei media di regime: Corriere, Fatto, manifesto, Stampa, Repubblica, e con i portavoce della lobby sionista, tutti partecipi del coro emanante da Washington, da Langley, da Riyad, da Tel Aviv.
 
Caro Giorgio, i paesi citati li conosco  e frequento da quasi 50 anni, ne conosco gli abitanti, ho partecipato ai loro successi e alle loro sventure. Mi ha consolato e illuminato la fierezza, la dignità, la coscienza di quei popoli, rispetto alle infamie del sistema cui appartengo, al suo degrado, alla sua ipocrisia. Ho rispettato scelte di popolo che non coincidevano con le prospettive elaborate nella nostra parte del mondo per portare giustizia e uguaglianza. Scelte derivanti da altri retroterra, altre culture, altre vicende storiche, che hanno determinato altri immaginari collettivi e che, soprattutto, hanno determinato condizioni di vita e di prosperità, di distribuzione della ricchezza, che noi ci sogniamo. E ho disprezzato con forza coloro che, da  lontano, blateravano ignoranze, pregiudizi, condanne, sulla base di eurocentrici dogmi, inevitabilmente ottusi e razzisti. Ti posso assicurare che faresti fatica a far comprendere le tue posizioni a un qualunque combattente antimperialista, antintegralista, antioscurantista, a un qualunque cittadino, il cui paese i russi oggi salvano dalla distruzione.
 
Quanto all'Egitto, ripeto, manco di elementi non inquinati dalle perfidie propagandistiche occidentali di destra e "sinistra" (sempre sospettamente unanimi i questi casi), per dare un giudizio attendibile su come il governo egiziano gestisce il suo popolo. So che la natura di Stato laico con pretese di autonomia (rapporti con Russia, Cina, difesa della Libia dall'islamismo terrorista), dotato di un'inedita enorme ricchezza energetica, controllore della principale via di comunicazione tra Occidente e Oriente, suscita frustrazione, invidia, ostilità, sogni di rivincita coloniale (già affidati ai Fratelli Musulmani). Mi colpiscono coloro che, in condizioni ancora più di me deprivati di conoscenze, azzardano sicurezze, trinciano giudizi ed emettono sentenze capitali. In sincrono con i disinformatori imperiali di De Benedetti, o Murdoch. Sulla base di dati forniti dagli specialisti delle destabilizzazioni imperiali come Amnesty o HRW.
 
Ricordo una scienziata, Ouda Hammash, membro del Consiglio Supremo della Rivoluzione sotto Saddam, che per prima aveva analizzato e denunciato gli orrendi effetti sui feti dell'uranio sganciato dagli Usa nel 1993. Le avevo detto dei rimproveri dell'Occidente alla mancata democrazia dell'Iraq. Mi rispose: "Siamo assediati in casa nostra. Da finestre e porte della nostra casa, dalle cantine e dai tetti, penetrano elementi stranieri che cercano di destabilizzare la famiglia, spiando, congiurando, sabotando, fomentando, seminando terrore. Ci costringono a serrare porte e finestre. Lasciateci in pace e potremo arrivare a una democrazia migliore, ad aprirle, quelle porte".
 
Semplice no? Forse un discorso del genere dovrebbe valere anche per l'Egitto che, da quando i Fratelli musulmani, sharìa e burka imposti a tutte/i, sono stati cacciati, prima da una rivolta di popolo e poi dai militari, subisce una quotidiana, sanguinosa, terrificante, aggressione dalla Fratellanza degenerata in banda terroristica. Attentati, stragi di poliziotti e civili, una guerra contro l'Egitto in quanto Stato, ma ancor più in quanto popolo, ché è il popolo ad essere ferito nell'economia e nella vita, visto che il terrorismo islamista punta alla distruzione della fonte principale della sua sussistenza, il turismo. L'Egitto è in guerra, letteralmente sotto assedio. E gli hanno buttato tra i piedi la mina Regeni. Come all'Afghanistan da ricuperare hanno buttato tra i piedi le Torri Gemelle. Mancano solo le aviazioni delle potenze straniere, per assimilare l'Egitto alla Siria. Una compiuta democrazia, priva di controlli capillari e ossessivi, priva di episodi di repressione anche brutali, deprecabili quanto si vuole, mi pare una gran facile pretesa..
 
La tua storia ti pone al di sopra di tutto questo, ma, occhio, la presunzione di essere depositari di una civiltà superiore ce la infilano preti, genitori, insegnanti, storici, ideologi, di destra come di una falsa sinistra, fin da quando impariamo a balbettare "mamma" e "papà".
 
Ti allego miei scritti sulla vicenda Regeni. Vicenda dalla portata strategica, che va ben oltre la triste sorte di un ragazzo dalle scelte fortemente discutibili. Confido che la tua onestà intellettuale e la nostra amicizia possano alimentare almeno un dubbio.
 
Fulvio
 
 
 
 

Sent: Wednesday, February 17, 2016 8:23 PM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

Caro Fulvio credo che l'età e le tante manifestazioni e lotte in cui ci siamo incontrati ed abbracciati mi consentano di scriverti con un poco di brutale e un poco risentita sincerità. 
Non ho capito i toni con cui hai respinto l'appello. Può non piacere il linguaggio, che è quello di un appello di centri sociali di Roma su cui ho lavorato, ma non si può accusare il  testo di non dire nulla. I punti finali chiedono il ritiro della armi italiane dappertutto, l'uscita dalla NATO, la rottura con le politiche UE, il rifiuto del modello francese e europeo di leggi  speciali, la difesa dei migranti... Chi in Italia oltre a noi sostiene queste piccole cose tutte assieme? Confonderci con la sinistra fru fru che dice pace e accetta la guerra è offensivo, siamo gente che va controcorrente da una vita e continua a farlo .
Per questo abbiamo deciso di mobilitarci il 16 gennaio e ora lo proponiamo per il 12 marzo, senza aspettare i risultati della iniziativa di Alex Zanotelli. Perché non accettiamo la tesi per cui se non c'è un po' di mondo politico e sindacale ufficiale non si può fare nulla.. Il nostro mondo non è quello della sinistra che periodicamente si riunifica con gli auguri del Manifesto.
Ma tu queste cose le sai perfettamente, ci conosciamo da una bel po', quindi ritengo che la questione sia un'altra. Il solo vero punto di differenza, sul resto discutendo sono sicuro che troveremmo una intesa, è il giudizio sulla Russia di Putin, su Assad e sul vario fronte delle loro alleanze in Medio Oriente. Io ho respinto una richiesta del PCL di mettere esplicitamente sullo stesso piano USA e Russia, perché so che avrebbe rotto con tanti, voi compresi, ma anche perché non condivido questo giudizio. Se dico No NATO vuol dire che ho un nemico principale, e non mi pare che gli USA così siano ignorati... Ma non son d'accordo di schierarmi con la Russia di Putin...su questo proprio non sono d'accordo io. Farei un discorso diverso se fossimo già al governo.. Uno stato deve avere una politica estera ed è ovvio che un stato che volesse rompere con UE e NATO dovrebbe avvicinarsi ai BRICS , sperando che essi esistano ancora... Ma un movimento di lotta contro la guerra oggi non ha stati amici, ne ha di nemici ma non ne ha di amici... Considero Putin un nazionalista di destra che contrasta gli USA, come tentò  di fare De Gaulle, con lui si possono avere convergenze che non mi spaventano, ma strategicamente è un avversario, qui e in Russia.. 
Non ho poi capito ciò che hai scritto su Al SISI, mi pare un tuo errore di valutazione, egli è un nuovo Mubarak, quindi un uomo puro degli USA anche se si maschera di più...
Se vorrai fare una discussione vera su questi temi sono sempre interessato, ma vorrei che questo non fermasse l'iniziativa che abbiamo il dovere di fare contro guerra e NATO. Cercando di avere in campo più forze possibili visto che che il grande movimento pacifista di una volta non esiste più. Questo dovrebbe vederci convergenti, il disaccordo sulla Russia viene dopo. Spero quindi che tu e coloro che condividono i tuoi giudizi siate comunque in manifestazione con noi il 12 marzo..naturalmente con le vostre posizioni..
Scusa i toni della lettera, ma sinceramente nemmeno mi aspettavo i tuoi. 
Un abbraccio 
Giorgio Cremaschi 

From:Fulvio
Sent: Friday, February 19, 2016 12:37 PM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

E grazie anche a te, caro Giorgio, con queste premesse sono sicuro che marceremo ancora insieme, anche se guardando a volte verso orizzonti diversi.
Però una cosa: che da sindacalista verresti ucciso in Egitto viene smentito proprio da Regeni, che frequentava riunioni, assemblee e personaggi dei sindacati, soprattutto di quelli detti "indipendenti". Tutti ancora vivi e attivi pubblicamente. Semmai i sindacati e gli operai vennero perseguitati, fino alla proibizione di tutti gli scioperi, dal Fratello Musulmano Morsi.
Sul povero Regeni, vorrei chiedere a te a tutti i media che ne esaltano le virtù di militante per la democrazia e i diritti umani, cosa ci facesse a lavorare a tempo pieno in una ditta privata britannica di spionaggio (lo chiamano "consulenza per multinazionali e governi"), "Oxford Analytica", retta dall'ex-capo dei servizi segreti britannici e da John Negroponte, il serialkiller di massa che imperversava con i suoi squadroni della morte contro le popolazioni civili dell'America Latine dell'Iraq.
Un abbraccio,
Fulvio

Sent: Friday, February 19, 2016 10:21 AM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

Caro Fulvio, 
Grazie della risposta argomentata, su cui studierò e rifletterò. Il senso della mia lettera risentita era quello di eliminare i sospetti e gli anatemi che ci sono tra compagni che stanno dalla stessa parte della barricata, anche se hanno giudizi e valutazioni diverse su temi molto importanti. Il disastro delle sinistra radIcali italiane deriva secondo me dalla incapacità e non volontà, per opportunismo, di praticare rottura e unità. Formula a parole semplice, ma in realtà di difficilissima realizzazione, pare.. Bisogna avere il coraggio di rompere davvero con il sistema di potere ed i suoi complici, e costruire l'unità tra tutte le forze e le persone che questa rottura fanno, al di là delle differenze. 
Invece c'è chi fa unità quando si deve rompere e rompe quando si deve unire. Purtroppo le nostre forze oggi sono poche e quindi ogni incidente fa danno amplificato... Nella sostanza rivendico la correttezza di una posizione che è contro la guerra e  la NATO senza stare con Putin e senza avere la paura di essere considerati vicini a Putin. Capisco che tu la consideri inadeguata, ma sta a te decidere se questa è comunque una condizione sufficiente per stare assieme contro la NATO oppure no. 
Sul caso dell'assassinio del povero Giulio Regeni: può essere che egli sia vittima di giochi e complotti sporchi su gas e patrolio, come tanti in quel mondo, ma una cosa so per certo, e qui ti prego di tenere conto del mio istinto che nasce dalla esperienza. Se facessi il sindacalista con le mie idee e i miei valori in Egitto, sarei sicuramente ucciso dal potere.. Capisci che questo per me un poco conta...
Comunque avremo tempo e modo di discutere...intanto ti sollecito a partecipare comunque anche con i tuoi giudizi critici alla mobilitazione del 12 marzo..Anche perché contro la NATO e la guerra in Italia per ora non c'è altro, confermo l'amicizia, 
Giorgio 

Ps Nessun problema a rendere pubblica la nostra corrispondenza 
Inviato da iPad

Il giorno 18 feb 2016, alle ore 15:05, Fulvio <fulvio.grimaldi@gmail.com> ha scritto:

Visto che i temi di questo dibattito coinvolgono molte persone, posso pubblicizzare il nostro scambio sul mio blog?
 
Caro Giorgio,
rispondo alla tua garbata ed amichevole risposta alle mie altrettanto amichevoli, ma meno garbate, osservazioni sul documento Eurostop che hai contribuito a redigere in vista della manifestazione contro la Nato e contro la guerra.
 
Pur memore della nostre tante, annose, comuni, battaglie e pur conservando intatto la stima e l'affetto che da sempre nutro per te, non ti nascondo che il tono veemente del mio testo è dovuto alla costernazione per averti visto cadere, con grande enfasi poi, nella micidiale trappola allestita attorno al povero Regeni, ora scoperto un po' meno eroe e martire della democrazia e un po' più collaboratore di una sporca agenzia privata di intelligence britannica, capeggiata dall'ex-capo dei servizi segreti di Londra e, udite udite, da John Negroponte, l'inventore degli squadroni della morte in Centroamerica, l'uomo dei Contras, lo stragista dell'Iraq, uno dei più fetidi arnesi dell'imperialismo. Con ogni evidenza e con molta maggiore evidenza del contrario, Regeni è stato utilizzato da questa marmaglia per un terrificante colpo contro  l'Egitto uscito dalla morsa fondamentalista e filo-Usa dei Fratelli musulmani (con annessi terroristi Isis), finanziati dal Qatar, con quel Morsi, "democraticamente eletto" da un'infima minoranza di egiziani, oltre tutto ricattata dall'assistenzialismo-clientelismo della Fratellanza, una roba alla Achille Lauro. Elezioni, poi, boicottate dalla maggioranza degli egiziani alla luce di come la Fratellanza le stava manipolando. Quel Morsi che ha mandato i suoi a perseguitare i cristiani copti, a bruciarne le case e le scuole, che ha proibito gli scioperi, sparato sulle manifestazioni e finito per mandare in rovina l'economia egiziana.
 
Questo ricordo, non per esaltare colui che con un colpo di Stato, sostenuto però da milioni di laici egiziani, è poi arrivato al potere. Il modo in cui governa Al Sisi, al netto della propaganda demonizzatrice delle lobby sioniste ed imperialiste impiegata pari pari nei confronti di tutti i leader di paesi da sfasciare e rapinare, non è qui il punto. Il punto è geopolitico. Ed è lo stesso punto che riguarda Putin. Dato per scontato che Putin ha preso in mano un paese depredato, venduto, saccheggiato dalla cosca di oligarchi sotto Elsin, manovrata dagli Usa, lo ha rimesso in piedi economicamente, militarmente, socialmente e geopoliticamente, ha ricostituito un salutare equilibrio di potere contro la pretesa del dominio unipolare guerrafondaio e fascistizzante imposto dagli Usa, cosa che gli garantisce l'80% del consenso dei cittadini russi (elemento che un comunista dovrebbe valutare), sappiamo tutti che non si tratta di un socialista, tantomeno di un comunista. E questo può dispiacere. Ma da qui a scrivere appelli in cui si mettono sullo stesso piano "gli opposti imperialismi", "lo scontro di potenze", con perfetto cerchiobottismo e scarso realismo, significa mistificare e depistare. Significa disarmare l'opposizione all'imperialismo unico e dominante, quello Usa, con sotto, ma proprio sotto, il subsistema vassallo europeo (cui tanta, eccessiva, indebita, importanza danno i familisti della Rete dei Comunisti). Non so cosa intendi per "avversario strategico", visto che la rivoluzione socialista non è all'ordine del giorno e all'ordine del giorno è invece un nemico strategico (contraddizione principale) che non solo esprime il massimo del capitalismo imperialista, ma che disintegra il diritto internazionale e prepara l'apocalisse mondiale. Di fronte a imperialismo e colonialismo, oggi nuovamente e più che mai all'offensiva, non condivido l'interpretazione derogatoria del termine "nazionalista". Nazionalista non significa fascista. Nazionalisti erano i rivoluzionari cubani e tutti coloro che si sono battuti nei movimenti di liberazione, appunto, "nazionale". Mi mancano proprio gli elementi di fatto e ideologici per accusare Putin di nazionalismo nel senso che dici tu. Perchè difende il popolo russo dalla manomissione nazista in Donbass?
 
Qui siamo, purtroppo, oltre,  o di lato, alla lotta di classe. O siamo in una lotta di classe che non è più tra ceti categorizzati alla vecchia maniera. Se lotta di classe è, è quella tra un'élite genocida imperialista, che ha il proprio cervello a Wall Street e soci capital-imperialisti o feudal-imperialisti sparsi ovunque e il proprio strumento militare nel Pentagono e, sulla sponda opposta, i popoli delle metropoli e del Sud del mondo. E qui non distinguere tra Usa e Russia confonde davvero le idee e rende un grosso favore agli Usa, deprivandoli di un'opposizione universale consapevole. Qui, caro Giorgio, si tratta in primis di sopravvivenza del genere umano e del pianeta con tutte le sue vite. Non schierarsi con la parte che, piaccia o non piaccia, si oppone al moloch, vuol dire rendersi inutili. Lo insegnano sia Lenin che Marx. E abbiamo una Russia, circondata da 8000 basi Usa e Nato, che interviene in difesa di uno Stato laico, relativamente prospero, socialmente equo, sovrano, anti-israeliano e antimperialista, contro gli Usa che capeggiano e guidano, anche con lo strumento orrendo del terrorismo, la peggiore e più reazionaria e fascistica banda di governi presenti sul pianeta. Non schierarsi con chi difende il diritto internazionale, la sovranità degli Stati, i popoli aggrediti, è atteggiamento assai gradito dagli antropofagi dell'Occidente.
 
Se non altro, dovrebbe suscitare qualche dubbio trovarsi fianco a fianco, come succede agli spiaggiati di un pervertito trotzkismo, su Regeni, su Gheddafi, Assad, Saddam, Putin, Tehran, con i più truffaldini protagonisti dell'inganno universale, con il menzognificio dei media di regime: Corriere, Fatto, manifesto, Stampa, Repubblica, e con i portavoce della lobby sionista, tutti partecipi del coro emanante da Washington, da Langley, da Riyad, da Tel Aviv.
 
Caro Giorgio, i paesi citati li conosco  e frequento da quasi 50 anni, ne conosco gli abitanti, ho partecipato ai loro successi e alle loro sventure. Mi ha consolato e illuminato la fierezza, la dignità, la coscienza di quei popoli, rispetto alle infamie del sistema cui appartengo, al suo degrado, alla sua ipocrisia. Ho rispettato scelte di popolo che non coincidevano con le prospettive elaborate nella nostra parte del mondo per portare giustizia e uguaglianza. Scelte derivanti da altri retroterra, altre culture, altre vicende storiche, che hanno determinato altri immaginari collettivi e che, soprattutto, hanno determinato condizioni di vita e di prosperità, di distribuzione della ricchezza, che noi ci sogniamo. E ho disprezzato con forza coloro che, da  lontano, blateravano ignoranze, pregiudizi, condanne, sulla base di eurocentrici dogmi, inevitabilmente ottusi e razzisti. Ti posso assicurare che faresti fatica a far comprendere le tue posizioni a un qualunque combattente antimperialista, antintegralista, antioscurantista, a un qualunque cittadino, il cui paese i russi oggi salvano dalla distruzione.
 
Quanto all'Egitto, ripeto, manco di elementi non inquinati dalle perfidie propagandistiche occidentali di destra e "sinistra" (sempre sospettamente unanimi i questi casi), per dare un giudizio attendibile su come il governo egiziano gestisce il suo popolo. So che la natura di Stato laico con pretese di autonomia (rapporti con Russia, Cina, difesa della Libia dall'islamismo terrorista), dotato di un'inedita enorme ricchezza energetica, controllore della principale via di comunicazione tra Occidente e Oriente, suscita frustrazione, invidia, ostilità, sogni di rivincita coloniale (già affidati ai Fratelli Musulmani). Mi colpiscono coloro che, in condizioni ancora più di me deprivati di conoscenze, azzardano sicurezze, trinciano giudizi ed emettono sentenze capitali. In sincrono con i disinformatori imperiali di De Benedetti, o Murdoch. Sulla base di dati forniti dagli specialisti delle destabilizzazioni imperiali come Amnesty o HRW.
 
Ricordo una scienziata, Ouda Hammash, membro del Consiglio Supremo della Rivoluzione sotto Saddam, che per prima aveva analizzato e denunciato gli orrendi effetti sui feti dell'uranio sganciato dagli Usa nel 1993. Le avevo detto dei rimproveri dell'Occidente alla mancata democrazia dell'Iraq. Mi rispose: "Siamo assediati in casa nostra. Da finestre e porte della nostra casa, dalle cantine e dai tetti, penetrano elementi stranieri che cercano di destabilizzare la famiglia, spiando, congiurando, sabotando, fomentando, seminando terrore. Ci costringono a serrare porte e finestre. Lasciateci in pace e potremo arrivare a una democrazia migliore, ad aprirle, quelle porte".
 
Semplice no? Forse un discorso del genere dovrebbe valere anche per l'Egitto che, da quando i Fratelli musulmani, sharìa e burka imposti a tutte/i, sono stati cacciati, prima da una rivolta di popolo e poi dai militari, subisce una quotidiana, sanguinosa, terrificante, aggressione dalla Fratellanza degenerata in banda terroristica. Attentati, stragi di poliziotti e civili, una guerra contro l'Egitto in quanto Stato, ma ancor più in quanto popolo, ché è il popolo ad essere ferito nell'economia e nella vita, visto che il terrorismo islamista punta alla distruzione della fonte principale della sua sussistenza, il turismo. L'Egitto è in guerra, letteralmente sotto assedio. E gli hanno buttato tra i piedi la mina Regeni. Come all'Afghanistan da ricuperare hanno buttato tra i piedi le Torri Gemelle. Mancano solo le aviazioni delle potenze straniere, per assimilare l'Egitto alla Siria. Una compiuta democrazia, priva di controlli capillari e ossessivi, priva di episodi di repressione anche brutali, deprecabili quanto si vuole, mi pare una gran facile pretesa..
 
La tua storia ti pone al di sopra di tutto questo, ma, occhio, la presunzione di essere depositari di una civiltà superiore ce la infilano preti, genitori, insegnanti, storici, ideologi, di destra come di una falsa sinistra, fin da quando impariamo a balbettare "mamma" e "papà".
 
Ti allego miei scritti sulla vicenda Regeni. Vicenda dalla portata strategica, che va ben oltre la triste sorte di un ragazzo dalle scelte fortemente discutibili. Confido che la tua onestà intellettuale e la nostra amicizia possano alimentare almeno un dubbio.
 
Fulvio
 
 
 
 

Sent: Wednesday, February 17, 2016 8:23 PM
Subject: Re: [nowaroma] I: Re: (ComitatoNoNato) Fwd: 12 marzo

Caro Fulvio credo che l'età e le tante manifestazioni e lotte in cui ci siamo incontrati ed abbracciati mi consentano di scriverti con un poco di brutale e un poco risentita sincerità. 
Non ho capito i toni con cui hai respinto l'appello. Può non piacere il linguaggio, che è quello di un appello di centri sociali di Roma su cui ho lavorato, ma non si può accusare il  testo di non dire nulla. I punti finali chiedono il ritiro della armi italiane dappertutto, l'uscita dalla NATO, la rottura con le politiche UE, il rifiuto del modello francese e europeo di leggi  speciali, la difesa dei migranti... Chi in Italia oltre a noi sostiene queste piccole cose tutte assieme? Confonderci con la sinistra fru fru che dice pace e accetta la guerra è offensivo, siamo gente che va controcorrente da una vita e continua a farlo .
Per questo abbiamo deciso di mobilitarci il 16 gennaio e ora lo proponiamo per il 12 marzo, senza aspettare i risultati della iniziativa di Alex Zanotelli. Perché non accettiamo la tesi per cui se non c'è un po' di mondo politico e sindacale ufficiale non si può fare nulla.. Il nostro mondo non è quello della sinistra che periodicamente si riunifica con gli auguri del Manifesto.
Ma tu queste cose le sai perfettamente, ci conosciamo da una bel po', quindi ritengo che la questione sia un'altra. Il solo vero punto di differenza, sul resto discutendo sono sicuro che troveremmo una intesa, è il giudizio sulla Russia di Putin, su Assad e sul vario fronte delle loro alleanze in Medio Oriente. Io ho respinto una richiesta del PCL di mettere esplicitamente sullo stesso piano USA e Russia, perché so che avrebbe rotto con tanti, voi compresi, ma anche perché non condivido questo giudizio. Se dico No NATO vuol dire che ho un nemico principale, e non mi pare che gli USA così siano ignorati... Ma non son d'accordo di schierarmi con la Russia di Putin...su questo proprio non sono d'accordo io. Farei un discorso diverso se fossimo già al governo.. Uno stato deve avere una politica estera ed è ovvio che un stato che volesse rompere con UE e NATO dovrebbe avvicinarsi ai BRICS , sperando che essi esistano ancora... Ma un movimento di lotta contro la guerra oggi non ha stati amici, ne ha di nemici ma non ne ha di amici... Considero Putin un nazionalista di destra che contrasta gli USA, come tentò  di fare De Gaulle, con lui si possono avere convergenze che non mi spaventano, ma strategicamente è un avversario, qui e in Russia.. 
Non ho poi capito ciò che hai scritto su Al SISI, mi pare un tuo errore di valutazione, egli è un nuovo Mubarak, quindi un uomo puro degli USA anche se si maschera di più...
Se vorrai fare una discussione vera su questi temi sono sempre interessato, ma vorrei che questo non fermasse l'iniziativa che abbiamo il dovere di fare contro guerra e NATO. Cercando di avere in campo più forze possibili visto che che il grande movimento pacifista di una volta non esiste più. Questo dovrebbe vederci convergenti, il disaccordo sulla Russia viene dopo. Spero quindi che tu e coloro che condividono i tuoi giudizi siate comunque in manifestazione con noi il 12 marzo..naturalmente con le vostre posizioni..
Scusa i toni della lettera, ma sinceramente nemmeno mi aspettavo i tuoi. 
Un abbraccio 
Giorgio Cremaschi 

MOBILITIAMOCI CONTRO LE GUERRE

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Nell'imminenza della guerra alla Libia, ordinataci dalla Nato, per tornare a distruggere e depredare quel paese e alla luce della sempre più massiccia aggressione della coalizione Nato-Israele-Golfo a Siria e Iraq, cui si oppone la vittoriosa resistenza del popolo siriano, assistito dalla Russia, il COMITATO NO GUERRA NO NATO diffonde questo volantino. Invitiamo a riprodurlo e a distribuirlo ovunque.



BASTA GUERRE!

L'Italia, dopo aver occupato, depredato e massacrato la Libia dall'invasione del 1911 allo sterminio del 2011, si appresta, ancora con la NATO e sotto comando USA, a una nuova guerra contro il paese africano.

Le precedenti incursioni della sedicente "comunità internazionale" hanno ridotto una nazione prospera e pacifica in un ammasso di rovine, lacerato da cento fazioni, percorso da bande di predoni, tutti impegnati a depredare i libici delle loro risorse petrolifere e idriche.

Il parossismo bellico di Turchia, Qatar e Arabia Saudita, strumenti di USA, NATO e Israele nella frantumazione degli ultimi Stati della regione che non accettano la dittatura colonialista, la Siria e l’Iraq, prospetta l’apocalissi di una conflagrazione mondiale.

Dopo aver utilizzato i cosiddetti “dittatori arabi” come pretesto per le loro aggressioni, questi paesi ora fingono di voler combattere il jiadismo terrorista di Isis e Al Nusra, da loro stessi creato e diffuso dall’Africa al Medioriente, dall’Asia all’Europa, in una spaventosa escalation di crimini di guerra e contro l’umanità.

Un apparato mediatico bugiardo, legato alle centrali del bellicismo imperialista e alle sue industrie delle armi, sostiene una serie ininterrotta di aggressioni nel segno di un nuovo e più letale colonialismo che distrugge Stati, stermina popoli, provoca l'immensa tragedia dei rifugiati, volge in distruzione e morte quanto viene sottratto a ospedali, scuole, welfare.

Il governo italiano ci rende corresponsabili di questo immenso oceano di sangue. La nostra Costituzione lo rifiuta. Le guerre d'aggressione sono il massimo crimine contro l'umanità. I popoli hanno diritto all'autodeterminazione. Sosteniamone la resistenza. Fermiamo gli assassini. Via la NATO, via le basi USA dall’Italia.

COMITATO NO GUERRA NO NATO

SIRIA, LIBIA, EGITTO, PUPAZZI E VENTRILOQUI

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Siria, Libia, Egitto, pupazzi e ventriloqui

A timpani sfondati e vista annebbiata
La forsennata baraonda intorno ai diritti di circa 7000 cittadini italiani, legittimi secondo i più, aberranti secondo i meno, ma dove i bambini si devono conformare alle preferenze degli adulti, bene o male che gli facciano, ci ha inflitto un acufene bilaterale che ci tappa le orecchie a qualsiasi altra percezione. Fosse anche quella che riguarda, che so, 180 tra donne, bambini, uomini, polverizzati a Damasco e a Homs dagli attentati di un mostro jihadista made in West che, in fuga sul campo militare, si rifa macellando civili. Già nel 2012 avevo visto Homs liberata e i miliziani in fuga rifarsi con stragi terroristiche a Damasco, dove m’è saltato accanto un palazzo mentre un autobus volava fin sopra a un viadotto e per strada c’era più sangue che asfalto (vedi “Armageddon sulla via di Damasco”). Gladio, Cia, Mossad e servizi vari l’hanno insegnato da tempo: non sai come uscire dall’impasse, devi aprirti una via di fuga, o di guerra? Fai saltare per aria un po’ di gente e palazzi e avrai, sia il consenso delle masse, sia la loro sottomissione alle “misure di sicurezza”.
S’ode a destraun’orchestra di percussioni gender, transgender, omogender, intergender, ultragender. Tamburi, timpani, batterie, bongo, tamburelli. A sinistra risponde un complesso di fiati, trombe, tromboni, sax, flauti traverso, clarinetti. Qui si suona la sinfonia di Giulio Regeni Martire. Dirige, a formidabili bachettate, il maestro Giuseppe Acconcia (il manifesto). Ultimamente vi si sono inserite le immancabili anime belle delle “sinistre”. Cinguettano in sintonia con le varie Amnesty, Human Rights Watch, Voice of Americae Voice of Israel. Annoverano  imbarazzanti sicofanti del padrone come l’amerikano Guido Rampoldi, tutta la lobby della menorah al cui controllo non sfugge nessuna testata, da quelle del noto De Benedetti al “manifesto” fino al “Corriere di Sgurgola”, come l’adolescente della Terza Età Castellina, più garrula che mai  a dispetto del tonfo etico-politico-mentale della scuffia perTsipras, figuraccia amara alla luce di un’età che avrebbe dovuto accumulare un minimo di discernimento (non per nulla  è stata subito elevata a icona dagli onanisti sinistri neo-ricostituiti per la trentesima volta in “nuovo soggetto politico”. Quanto meno, di grosso hanno il nome: Cosmopolitica, roba da far impallidire chiunque, da Podemos ai laburisti britannici, da Trump alla Terza Internazionale).
Tutti a tubare nella piccionaia del menzognificio mediatico, intonacato di fresco per la bisogna egiziana. Ultimo arrivato, last but not least, l’aerofono risonante dell’Arci. Quello in cui soffiava note di vetriolo da schiantare ogni dittatore la pasionaria dei diritti umani Raffaella Bolini. L’Arci nelle grandi occasioni delle megatruffe dirittoumaniste non manca mai, coerente con il suo statuto quanto lo sono con il loro quelli dell’ANPI – dio li perdoni –evolutisi fino a celebrare l’avvento dei nazi a Kiev. Tutti in formazione, a passo dell’oca, specie quando trattasi di abbattere dittatori, a cogliere l’occasione di coadiuvare invereconde campagne di disinformazione e demonizzazione, quelle che servono a lastricare la via alle guerre dei diritti umani.
Regeni? Zitti zitti
Curioso che dallo spartito di questi suonatori siano scomparse le note su Regeni dipendente a tempo pieno dell’agenzia spionistica transnazionale “Oxford Analytica”, di un ex-capo dei servizi segreti britannici e di John Negroponte, operatore genocida in due o tre continenti e creatore del primo Emirato Islamico, con cui contrastare la resistenza nazionale in Iraq. Modello originariamente proposto da Churchill e dai britannici, con il logo Fratelli Musulmani, contro gli irrequieti nazionalisti egiziani, replicato anche da Obama in Siria. Fratelli Musulmani poi messisi à la page con la modernità, altro che Cirinnà. Si sono moltiplicati grazie a uteri in affitto messi a disposizione dall’Occidente e praticano alla grande la stepchild adoption ovunque si trovino adottandi con barbone, nodo scorsoio e scimitarra da decapitazione. Milioni di schermate, foreste di alberi ridotte in pagine di giornali, tonnellate di piombo, tutte impegnate allo spasimo a sviscerare ogni tessera del luminoso mosaico della vita di Regeni e, toh, neanche tra le righe a caratteri più minuti, neanche in una nota in calce, gli è scappato ciò che tracima da mille voci di Google, che il giovanotto ha lavorato embedded  tra capi che figurano tra i peggiori mascalzoni rigurgitati dalla macina di morte angloamericana. E volete che gli si dia la patente della buonafede? A questi media, dico?
Con acufeni provocati  da questi clamori chi è che riesce più a sentire i versi successivi? “D’ambo i lati calpesto rimbomba / da cavalli e da fanti il terren… Chi sono essi? Alle belle contrade / quale ne venne straniero a far guerra? / Qual è quel che ha giurato la terra / dove nacque far salva, o morir?”  (Alessandro Manzoni, Il Conte di Carmagnola, coro). E così non si capisce mica quale sia e e cosa faccia, lo straniero venuto a far guerra, e se c’è e se abbia ragione quel che ha giurato di far salva la terra dove nacque, o morir. La metafora si fa forzata e oscura. Ma calza, vista la grande operazione di confusione che si è venuta facendo sullo straniero venuto a far guerra. Moderato? Terrorista? E su colui che vuol far salva la terra dove nacque. Il filo-Assad? L’anti Assad?
Sospensione delle ostilità, o Piano B?

Saremmo dunque, in questo mare di opposti, alla “sospensione delle ostilità”. E qualcuno già intravvede il roseo orizzonte di un’intesa tra Mosca e Washington,  con un tè delle cinque tra i vecchi gentiluomini Kerry e Lavrov, con un Obama che vuole uscire di scena, riscattato dalle sue 7 guerre e dalle sue stragi da droni, con la chiusura di Guantanamo, la pacificazione con Cuba e Iran, un salvataggio di capra e cavoli in Siria mediante la riduzione alla ragione dei dromedari impazziti turco e saudita. Ma non si sopravaluta forse un tantino l’autonomia e il potere decisionale di questa gente? Forse Putin non deve render conto a qualcuno sopra di lui. Ma quanto a Obama, non s’era denunciata mille volte la farsa di una democrazia americana dove nella Casa Bianca si entra solo passando su un tappeto di dollari tessuto su telai di ossa umane in consigli d’amministrazione con Menorah, croce e compasso? Non s’era capito che la Casa Bianca non è che il portierato di un edificio più grande, nero, collocato nella quarta dimensione?
Il buon John Kerry, di cui qualcuno si augura che tenga a freno i falchi, ma a cui, quando sfrottola, si allunga la bazza quanto a Pinocchio il naso, appena finito di cinguettare con il suo omologo russo a Monaco, si è precipitato a placare i mastini del Senato rassicurandoli sul famoso Piano B. Quello vero. Essendo il fasullo quello che si è sventolato sulle guglie della Marienplatz di Monaco. Sta per essere troppo tardi per conservare integra la Siria nella sua interezza, dovremo passare al Piano B”. Che cosa significa? Significa che le altre frasi dette ai media: “Vogliamo una Siria laica che protegga tutte le minoranze, dove il popolo abbia il diritto di scegliere il suo leader e il suo futuro”, e subito contraddette con: “Assad non può restare presidente perché non è accettato da coloro che lo hanno combattuto per quattro anni”, rendono l’idea di quanto i robotini di Washington siano imbeccati da ventriloqui che ci prendono per il culo. Tanto caloroso è il flirt di Kerry con Lavrov, tanto lunga la sua bazza, che è arrivato a dichiarare, senza ridere, che sono le bombe di Putin ad aver determinato la crisi dei rifugiati che sta minando l’unità europea. Quando il bue dà del cornuto all’asino.
Il Piano B non è altro che il Piano A dissimulato. Il piano di sempre, quello vagheggiato fin dall’indipendenza siriana realizzata nel segno del socialismo Baath, dell’antisionismo e dell’antimperialismo. Il piano messo per iscritto in Israele nel 1981 da Oded Yinon. Quello che prevede lo squartamento di tutti gli Stati arabi che fanno barriera al Grande Israele e alla ricolonizzazione della regione. E per primi Iraq e Siria, i più ostici e irriducibili. Poi l’Egitto e ne vediamo le mosse a partire dalla primavera araba dirottata verso il Fratello Musulmano Morsi e a finire con l’assedio a Sisi. Seguiranno Algeria e, nel tempo, anche le tirannie del Golfo, oggi alleate, ma hai visto mai che anche lì parta qualche primavera  da far tornare buona per Israele e il colonialismo del Terzo Millennio?
L’unica frizione che vedo tra boss e picciotti è quello tra Usa e turchi sulla questione curda. Per i neocolonialisti una fetta di Siria assegnata a uno pseudostato curdo, che diventi protettorato sionimperiale come quello iracheno, fa parte del Piano B di smembramento della nazione araba. Per il terrorista neo-ottomano è un intralcio e la legittimazione della spina PKK nel fianco. In qualche modo la risolveranno. Come in Iraq, dove il Kurdistan, nella misura in cui è appaltato a Israele e agli Usa, sta bene anche a Erdogan. Del resto Ocalan ha già dato ampi segnali di ravvedimento e i curdi dell’YPG  stanno dando agli Usa convincenti dimostrazioni di collaborazione subalterna.
La transustanziazione del terrorista moderato
La “sospensione delle ostilità” proclamata a Monaco, per quanto diano di matto gli scagnozzi locali, esterni e interni alla Siria, qualche giorno durerà. Il tempo necessario a che turchi, sauditi, giordani e sovrintendenti Usa e Nato permettano ai frastornati jihadisti e “ribelli moderati” di riprendersi dalle tranvate prese su tutti i fronti del paese, ricostruiscano vie di rifornimenti in alternativa a quelle tagliate da russi e siriani, facciano arrivare rifornimenti  (una bella colonna con 400 tonnellate di munizioni è stata incenerita dai bombardieri russi appena superata la frontiera turca a Idlib), trovino nuovi canali di finanziamento del califfato dopo che l’aeronautica di Mosca gli ha bruciato fonti, vie e colonne del petrolio. Insomma abbassare il fuoco sotto la pentola che ribolle.

La ripresa del processo per realizzare il Piano B avverrà quando verrà al pettine il nodo di chi è terrorista e chi è “moderato”. La Russia può continuare a colpire l’Isis e Jabhat al Nusra, che l’ONU classifica come terroriste. Ma queste formazioni sono intrecciate spesso tra loro e sempre ad altre, tipo Ahrar e-Sham e Jaysh el-Islam, fanatici takfiristi che, però, per la Coalizione messa su dai sauditi sono “ribelli moderati” (nella foto mentre stanno per giustiziare prigionieri siriani), alla stregua del fantasma chiamato “Free Syrian Army”. In tutto il territorio siriano dove si trovi il mercenariato terrorista la separazione fisica, oltrechè ideologica, tra le fazioni è impossibile. Qualcuna risponderà pure a un locale signorotto tribale e si alleerà a seconda di chi paga meglio. Moderata o terrorista? Situazione ideale per l’incidentino che, al momento giusto, faccia ripartire l’ambaradan.
John Negroponte: l’Egitto val bene un Regeni
L’operazione Regeni, buttata tra i piedi di un paese che minaccia di tornare a essere protagonista degli equilibri geopolitici, il forsennato attacco lanciato dai giaguari, dai loro amici e lacché, contro l’Egitto, oltre a tagliare le gambe a un paese che stava affacciandosi prepotentemente sulla scena economica e politica regionale, segnano la riattivazione dello scenario libico perché si perda un attimo di vista l’impasse siriana. Soprattutto tocca sventare il rischio di una soluzione egiziano-libica, cioè inter-araba, della crisi libica, come prefigurata dalla riconquista di Bengasi da parte dei laico-gheddafiani del governo di Tobruk. Ed ecco che gli Usa annunciano l’intenzione di sfasciare quel giochino bombardando qualcosa a Sabrata che fanno passare per base Isis. Ed ecco che si riparla dei 5000 soldati italiani da mandare a guardia del bidone. Ed ecco che, sputando in faccia al paese e alla sua presunta democrazia parlamentare, gli Usa annunciano unilateralmente il decollo per la Libia di droni bombaroli dalla base siciliana di Sigonella. E il governo di Renzi cosa fa? Balbetta “purchè siano difensivi”. Missili Hellfire difensivi sparati dai Predator in testa alla gente, come quelli che difendono l’Occidente in Afghanistan, Pakistan, Somalia, Yemen, finendo su matrimoni e funerali.
Quei filibustieri di francesi
Ultima ora: si scopre che forze speciali francesi partecipano alla liberazione di Bengasi  seconda città della Libia, dalla marmaglia jihadista, con l’esercito del governo di Tobruk (quello che si ostina a non avallare il famoso “governo di unità nazionale” incaricato di chiamare alla ricolonizzazione della Libia italiani e Nato), guidato dal generale Khalifa Haftar. Quello sostenuto dall’Egitto e inviso peggio di Sisi ai Fratelli Musulmani. Che succede? Gli Usa bombardano in Tripolitania, gli inglesi si aggirano dalle parti del Fezzan al Sud, i francesi collaborano con la fazione amica dell’Egitto? Si riparla, anche qui, di tripartizione?
C’è qualcosa di nuovo sotto il sole, anzi d’antico, direbbe il poeta. E parrebbe avere ragione. Diavolo d’una Francia! Di nuovo, come nel 2011, primi nell’arrembaggio al petrolio libico. Accanto all’Egitto di Al Sisi e ai suoi fiduciari nazionalisti di Tobruk. Proprio quelli che l’Italia e l’Eni, già con una zampa sul gigantesco giacimento di gas egiziano, si stavano cucinando prima che la mina Regeni deflagrasse sotto i documenti che la signora Guidi e l’equipollente ministro dello Sviluppo del Cairo stavano per firmare. Diavolo d’una Francia! Che ci abbia messo lei uno zampino per farci fuori?  Non le manca l’esperienza. Pensate a Parigi. E diavolo di un’America che si pappa l’ovest. Congetture, d’accordo. Una cosa è però certa: gli ascari degli uni e degli altri siamo noi.
 Gheddafi è viva

Un’altra cosa è certa. Ed è entusiasmante.. Ospite in Eritrea, Aisha Gheddafi, figlia prediletta ed erede politica di Muammar, anima della resistenza durante i nove mesi dell’aggressione, ha costituito il Governo della Jamahirija Libica in esilio e ha confermato che la lotta per la rinascita del paese è in corso. Che non si tratti di una vanteria è confermato dall’adesione al nuovo governo della più grande tribù della Libia, i Warfalla, la cui capitale è Bani Walid, a sud di Misurata, al centro di una regione restata libera e indipendente dall’inizio del conflitto ad oggi. Con i Warfalla si sono schierati i tradizionali cugini dei Ghaddafa. Altri seguiranno. E forse con Tobruk e con l’Egitto è possibile aprire un dialogo. Anatema per colonialisti e ascari islamisti. Se son rose….
Lo zerbino Usa
Questo nel giorno in cui la Corte di Strasburgo ci mazzia per aver collaborato con la Gestapo Cia a rapimento, extraordinary rendition e tortura di Abu Omar. E per essere stati capaci di reggere due presidenti felloni che hanno graziato i delinquenti mandati dal padrone Usa a fare quel cazzo che gli pareva sul nostro territorio “sovrano”.  Mi fanno specie e anche un po’ schifo quelli che elevano alla settima potenza la cresta della loro indignazione per quello che succederebbe in Egitto e si beano della consapevolezza di stare nel migliore dei mondi possibili in un paese in mano a una banda di malfattori, pronti ad andare in giro ad ammazzare gente su ordine dello Stato canaglia più canaglia del mondo. Stato canaglia e pure spione che, dopo aver affidato nel 1945 questa colonia al consorzio mafia-partiti, l’ha poi rinserrato in un’Unione Europea costruita a immagine e somiglianza della Vergine di Norimberga. Dopodichè, con la NSA, spia, cospira, ridicolizza ogni residua pretesa di sovranità e organizza colpi di Stato.
Ah, ma la pena di morte no!
Analoghi sentimenti di ribrezzo suscitano poi i vari papi e capi di Stato che ogni tanto se ne escono, ripuliti da cumuli di nefandezze, per invocare la fine della pena di morte. Quella dei tribunali. Mica quella che prescinde da tribunali e, anzi, viene inflitta da chi è tutt’uno: investigatore, giudice e boia. Per esempio Negroponte, capo di Regeni e capo degli squadroni della morte.  Per esempio Obama, che ogni martedì seleziona e firma l’elenco dei “sospetti” da far fuori, o che, da quando è presidente, a forza di guerre, la pena di morte la infligge a milioni, obliterando nozze, tribunali e are (che diero alle umane belve esser pietose / di se stesse e altrui). Che dice l’Arci a proposito?

L’intero sistema imperialista si regge su una specie di stop and go  mediatico dettato da un’attenta regia militare e politica. Un fronte vacilla, l’opinione pubblica deve essere attratta da un altro fronte. Monta l’esasperazione per una guerra che non finisce e che provoca alluvioni destabilizzanti di stranieri, nella rappresentazione si inserisce un intervallo, una “sospensione delle ostilità”. E lo spettatore appena rilassato, può tornare ad eccitarsi a un secondo atto con nuovi attori, nuove comparse, nuove scenografie. E stesso copione.
I pretesti per riaprire il fuoco in Siria non mancano. E per coloro che da decenni nelle segrete stamze dei complotti e, sul campo, da 5 anni, lavorano per abbattere il governo siriano, frantumare e distruggere la nazione, disperderne il popolo per sbatterlo in un’Europa che non li regge e vi hanno impiegato miliardi di dollari, la faccia, la credibilità politica, geopolitica e militare e, nel caso di Israele, derivano la loro strategia di sopraffazione da un destino sacro determinato dal divino, la sola idea di abbandonare l’impresa vorrebbe dire l’inizio di una crisi esistenziale. L’obiettivo finale del grande schieramento imperialista euroatlantico, con relativi clienti e vassalli, già pesantemente in difficoltà di suo, consiste nell’eliminazione di ogni contrappeso economico, militare, geopolitico, esattamente come al tempo dell’URSS e di Mao. Obiettivo che verrebbe vanificato da una debacle in Medioriente. A tutti coloro che arricciano il naso di fronte a chi ritiene di doversi schierare nettamente in uno scontro che mette in gioco nientemento che una vita decente, giustizia, uguaglianza, dignità,  libertà e, oltre, la sopravvivenza, va augurato di non scoprire un giorno che la loro defezione, la loro ignavia, ha contribuito alla loro, alla nostra, fine. Tra imperialismo e popoli la posta in gioco è questa.
Quanti pensano che Obama e Kerry abbiano facoltà di scelta, non si avvedono che assistono a una commedia. Quelli non recitano a soggetto, leggono dal gobbo. E’  chi scrive sul gobbo che bisogna far uscire da dietro le quinte. E colpirlo a morte.



REGENI? CE L'HANNO MANDATO. IN BALLO LO STERMINIO ARABO.

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“Ci sono due modi per essere presi per i fondelli. Uno è di credere ciò che non è così, l’altro di rifiutare di credere ciò che è così”. (Kierkegaard, filosofo danese)

Ultima ora: Dopo Regeni e l’attentato al consolato italiano in Egitto, due italiani uccisi in Libia a Sabrata, città sotto controllo islamista. E l’Italia si appresta a partire in armi contro la Libia. La domanda è: i Fratelli Musulmani e chi li manovra fanno tutto questo perché ci vogliono, o NON ci vogliono, in Libia?
Contro Erdogan e Saud

Le vedete  queste due foto? Roma, pochi giorni fa. Una è di trenta persone davanti all’ambasciata turca, cioè di quel paese Nato che, oltre a massacrare i suoi cittadini, turchi o curdi che siano, è il massimo artefice dell’Isis e delle sue nfandezze in Siria e Iraq (nella colonna di destra del blog, sotto "Interventi di Fulvio Grimaldi", ne parlo alla tv iraniana), l’altra, di una cinquantina, davanti a quella d’Egitto. I trenta sono attivisti del Comitato No Guerra No Nato e dell’associazione No War. Quattro gatti che, imperterriti, alla faccia dei numeri, li trovi ovunque ti aspetti invano di trovare una manifestazione oceanica contro i crimini della globalizzazione bellica degli Usa, della Nato, della “comunità internazionale” e dei suoi mercenari. Piccoli fuochi, certamente non fatui, dove ignavia, ignoranza, panciafichismo, codardia, opportunismo, fanno mancare l’incendio. Un battaglione di poliziotti e carabinieri li hanno tenuti fuori dalla portata di sputo e di slogan dall’ambasciata turca..
Contro l’Egitto

Gli altri sono dell’internazionale dei diritti umani come li interpretano la “comunità internazionale” (leggi: l’Occidente imperialista), Amnesty International (leggi Dipartimento di Stato), Avaaz (leggi Wall Street) e Human Rights Watch (leggi George Soros e Sion). Li ho visti, tali e quali, alle chiassate dei ratti anti-Serbia, anti-Iraq, anti-Libia, anti-Siria. Eccellenze filo-israeliane quali Erri De Luca, equilibristi come Un Ponte per, Signori del pacifismo clerico-istituzionale come Flavio Lotti della Tavola della Pace solita marciare con chi bombarda Belgrado, gli anticomunisti del “manifesto”, i corifei di ogni nefandezza doppiogiochista Arci, Acli, Cgil, Cisl, Uil, gli ambiguoni del Partito Umanista che ronzano attorno alle sinistre da anni, filopalestinesi passati sotto l’ala del despota Fratello musulmano del Qatar. Più il solito corredo di alternativi fuori tempo massimo, fighi e fighette delle sfilate non-violente all’ombra degli sfracelli dei violenti di Stato. 

Di uno Stato e di una “comunità internazionale” dal più alto tasso di criminalità da un secolo in qua, che di queste coperture falso-dirittoumaniste si compiace assai. Sinistri e destri uniti e cinti d’affetto da media e potere.  Onnipresenti sui Tg e sul “manifesto”. Cultori di tutte le  rivoluzioni colorate, sudditi di teocrazie di segno occidentale che anatemizzano “dittatori sanguinari” , confusi, complici, cretini, infiltrati, amici del giaguaro. Non c’è verso che gli scappi una sola delle bufale e False Flag lanciate dall’Impero. Non c’è verso che li trovi anche a una sola manifestazione che nomini un responsabile delle guerre, che so, davanti a poligoni sardi da cui partono gli sterminii dei popoli e degli abitanti della zona..Nessun poliziotto o carabinieri gli ha impedito di strusciarsi ai muri di cinta dell’ambasciata egiziana. Antropologia e classe sociale separano i primi dai secondi.  
Contro l’Egitto 
Contro Erdogan e Saud

Ci sono o ci fanno?
E’ una vita che mi interrogo su due megadubbi: Lotta Continua era un’operazione spuria fin dall’inizio, o lo è diventata dopo? “Il manifesto” è venuto, o ce l’hanno mandato?  Parto dalla prima questione, lacerante per me che ne sono stato militante e direttore del giornale (150 processi, un mandato di cattura). E sarei arrivato alla conclusione che la metempsicosi da rivoluzionari in gaglioffi ( non certo delle decine di migliaia di compagni che vi hanno impegnato il lavoro, i soldi, la professione, la vita, e in molti li perdettero), è avvenuta da un certo momento in poi ed è stata coronata, alla chiusura dell’organizzazione per decisione del “capo carismatico”, dal passaggio del gruppo dirigente armi e bagagli nel campo dell’ex- nemico e ora munifico datore di lavoro e fama. Lo stesso al quale si possono intestare i compagni uccisi a vent’anni. Forse il momento di svolta coincide con l’omicidio Calabresi e con i relativi ricatti.

Divennero illustrissime e remuneratissime mosche cocchiere del menzognificio Cia-Mossad gli altri suoi compari. Sono idealmente tutti lì, davanti all’ambasciata d’Egitto. E che le ricompense per aver ringalluzzito, con i propri scilipotismi, il dominio dei farabutti, dopo le vicissitudini che lo avevano scombiccherato per una decina d’anni, scendano per li rami lungo le dinastie è stato ultimamente ribadito dalla nomina alla direzione di Rai3 di Daria Bignardi, scadente gossipara da angiporto televisivo, ma nuora di Sofri e dunque maritata a un Signor Sofri-Bignardi. Quello del lecca-lecca “Bravo Capo, ottima, ottima intervista!”, dopo che i borborigmi della consorte avevano lustrato le chiappe a Renzi. 


Sul “manifesto” è svanito ogni dubbio in occasione delle guerre contro i “dittatori sanguinari” invisi a Wall Street. Con la Jugoslavia del “despota Milosevic e della pulizia etnica in Kosovo” (copyright Tommaso De Francesco), è diventato l’house organ della multinazionale pentagoniana dei diritti umani a uso bellico, a dispetto di residuali firme rispettabili che stanno lì, o perché non si accorgono di chi gli scrive accanto, o perché hanno olfatti resistenti ai peggiori miasmi, o perché ritengono utile farsi utilizzare a copertura delle nefandezze altrui. E magari hanno pure ragione.

Per quanto a me paia che certe nefandezze non le copri neanche se allaghi di lacrime tutti e 5 i milioni di palestinesi, o ti batti e sbatti in difesa di Ugo Chavez, o colmi di indignazione coloro che allo tsunami di milioni di profughi oppongono barriere. Nefandezze come il riciclo di ogni detrito decrepito di una sinistra ottusa e consociativa spiaggiata  sui gradini del “manifesto”, per lanciarla contro l’unica opposizione vera oggi viva, attiva e davvero fastidiosa per il sistema; o come il marchio DOC offerto gratuitamente, dalla veneranda vegliarda Rossanda e a scendere fino ai ragazzi di bottega, agli attentatori dell’11 settembre e, a seguire, a tutti gli altri fino al Bataclan, ai brigatisti assassini di Moro per mandato Cia-Mossad (“l’album di famiglia”, ricordate?), ai tagliagole del Qatar e mercenari Nato in Libia insigniti dell’Ordine dei Cavalieri della Rivoluzione, alle prostitute delle Ong e della “società civile” e ai lenoni del relativo regime-fantoccio al servizio del violentatore imperiale dell’Afghanistan… Non si finirebbe mai a elencare le imprese da infamoni di questo giornale, perennemente in sincrono con le demonizzazioni  del cattivo di turno ordite da falsari che pagano il tuo cervello portato all’ammasso con la moneta di Giuda. Slotmachine che con il barluccichio dell’azzardo vincente ti fregano anche gli ultimi scampoli di verità. Falsari quaquaraquà sbocciati nell’orticello del “manifesto”, ma poi giunti a rigogliosa fioritura nelle vaste monoculture dei grandi media. Pensate a Riotta, Annunziata, Barenghi, Tiziana Maiolo, Menichini, Teresa De Santis, Cimini….

"Il manifesto"è un giornaletto sovvenzionato dalle più virtuose espressioni del capitalismo da planeticidio, Eni, Enel, Telecom, Coop, e dai contributi all’editoria di un regime che sa bene quale “sinistra” coltivare. Non solo quella collateralista sul piano della globalizzazione armata, ma, altrettanto sincronica, quella culturale dove, tra un’astruseria e l’altra del supplemento Alias, riservata, se va bene, ai famigliari dell’autore, ma finalizzata a far sentire imbecille il proletariato, arrivano anche formidabili siringate di veleno. Tanto depistante olocausto ebraico mentre è in corso quello arabo; un aedo della violenza insegnata al pupo, come tale Ercoli, che s’inebria della perfezione artistica e tecnologica dei più brutali videogiochi sfornati dagli specialisti Usa per diffondere il verbo che uccidere è bello, uccidere di più è più bello; o come quella corrispondente da New York che tanto si è immedesimata nelle manipolazioni, occulte ma neanche tanto, della Cia, da elevare peana perfino alla fiduciaria dell’agenzia, Kathryn Bigelow, e al suo “Zero Dark Thirty”, fetida opera di glorificazione del falso assassinio del falso Osama bin Laden.

Alla mensa di cadaveri e balle
E così siamo arrivati al caso Regeni. Ancora una volta. Anche perché il “manifesto” non desiste, anzi rilancia, più di tutti gli altri del giro USraeliano. I quali in buona parte o hanno detto “passo”, o si limitano al “cip”, rendendosi conto dell’assurdità e strumentalità della versione unica basata, a priori, sulla “prova provata” che Regeni era un militante pericoloso alla dittatura e che sia stato eliminato dagli sgherri di Al Sisi. Di militanti fastidiosi, molto, ma molto di più dell’accademico italiano, ce ne sono al Cairo e bizzeffe e si manifestano e sono vivi e vegeti e scrivono sui media e social network. Il fastidio creato al governo egiziano dalle frequentazioni dell’allievo del capo dei servizi inglesi e dal serialkiller John Negroponte, è niente rispetto alla catastrofe d’immagine e di agibilità internazionale venutagli dall’uso che hanno fatto del ritrovamento del corpo seviziato nel giorno della firma dei megaccordi tra Egitto e Italia, gli utili idioti e amici del giaguaro. Più che un dittatore sanguinario, il presidente egiziano sarebbe un cretino matricolato, impegnato a picconarsi le gonadi.

E a proposito di Negroponte, inventore degli squadroni della morte e dei  Contras, e dell’ex-capo delle spie di Sua Maestà, Colin McCole, che erano i datori di lavoro e dirigenti di Regeni in Oxford Analytica, non sarebbe forse del tutto spropositato argomentare che siano stati loro a incaricare il giovane italiano a occuparsi di “sindacati indipendenti”?Magari per farne buon uso contro l’inaffidabile Al Sisi, partner di Putin e dell’Eni, che rompe le scatole nella ricolonizzazione della Libia da tripartire, come s’è fatto manipolando e pervertendo la primavera araba?
Negroponte convitato di pietra

Il fatto assolutamente scandaloso che il manifesto continui a occultare quanto è urlato da mille pagine di google e ora anche da qualche giornale meno disonesto, e mai smentito, che il giovanotto era impiegato a tempo pieno da quella consorteria di spioni e terroristi che è Oxford Analytica, con amministratore delegato John Negroponte, ambasciatore Usa e un autentico primatista delle stragi, delle torture, di ogni immaginabile nefandezza, in America Latina e Medioriente, toglie ogni minimo sospetto che Acconcia e compari possano essere in buonafede. Che possano arrivare a giurare che Regeni non aveva avuto contatti con persone equivoche, che la sua vita era tutta di studi e lunghe chat con la fidanzata operatrice ONU a Kiev(!). Ma per questi infingardi e mentitori, Negroponte e McCole che cosa sono, probi educatori di giovani perbene alla democrazia e ai diritti umani? Siccome, con ogni evidenza, non lo sono, meglio stralciarli dalla vicenda Regeni.


Quelli della Diaz
Che i genitori del dottorando abbiano illecitamente sottratto agli inquirenti egiziani il computer di Regeni, potenziale rivelatore di cosa intercorresse tra il dipendente e i suoi capi a Oxford Analytica, getta ombre su come vengono condotte le indagini da parte italiana, altro che depistaggi e insabbiamenti degli investigatori del Cairo! Se non c’è da fidarsi è proprio di coloro che in Italia si occupano del caso. Forse al Cairo quei buzzurri sottosviluppati da Terzo Mondo lavorano con metodo, hai visto mai, e forse i civilissimi maestri italiani del diritto, gli eurocampioni  della correttezza e incorruttibilità investigativa, la categoria de luxe del giornalismo cane da guardia del potere, stanno rimestando nel torbido? Impossibile? Ma certo, visto come siamo usciti splendidamente trasparenti ed efficienti dalla trattativa Stato-mafia del’92-’93, dal massacro di centinaia di inermi alla Diaz e Bolzaneto, da Piazza Fontana e Ustica, dai seviziati a morte Mogherini, Cucchi, Aldrovandi, Uva, dal sequestro di Abu Omar, dalle centinaia di morti della “meglio gioventù” anni ’70 sparati o schiacciati dalle camionette, dal Ros di Mori che impiccia con la mafia di Riina e poi impiega il brigatista Morucci,  dalle torture per cui ci siamo beccati la reprimenda di Strasburgo?

Si capisce bene perché al Cairo il potere giudiziario, che diversamente dalle narici otturate dei nostri cronisti, percepisce forte il tanfo di un complotto per destabilizzare l’Egitto, il suo ruolo in Libia, i suoi rapporti con l’Italia e altri paesi infidi, la gestione del suo gas e del suo Canale, esiti a consegnare ai colleghi italiani atti, analisi, risultanze. Visto il pre-giudizio strumentale alla cui pressione mediatica e politica questi colleghi sono sottoposti da ancor prima che la notizia del ritrovamento fosse stata resa pubblica. Stellare deontologia giornalistica e giudiziaria. Impervia a ogni contraccolpo, come quando si aggrappò alla fola che Regeni era stato prelevato intorno alle 17 del 25 gennaio da due tizi dei servizi, quando poi appare che scambiò telefonate tranquille con gli amici fino a poco prima delle 20. O quando  dal fatto che il giovane sarebbe stato torturato in maniera scientifica si deduce l’aporìa granitica che “allora non possono che essere stati i servizi del regime”. Sorvolando sulle perizia, collaudata e comprovata, dei torturatori olimpionici Cia, Mossad, ma anche nostrani, fattisi le ossa sui genitali di donne e uomini in Somalia.
Mogadiscio

Il vertice della perspicacia e rettitudine giornalistica il “manifesto” (trainato da Acconcia che ora è costretto a dividersi tra l’infame Egitto e il meraviglioso “Iran restituito dalla vittoria dei moderati alla comunità internazionale”) l’ha raggiunto quando, con una frode da magliaro, sentenzia che “Regeni fu interrogato per 5 o 7 giorni durante i quali subì ripetute violenze a intervalli di 10-14 ore”. Chi lo dice? Ma la Procura di Giza, ovviamente, tutt’a un tratto diventata fonte di verità incontrovertibili. E tutto ciò significa che lo stavano interrogando per ottenere informazioni. Chi è perché? Anche qui nessun dubbio: gli sgherri di Al Sisi, per estrarre dal militante sindacalista notizie sui complotti dell’opposizione.

Invece no. Tutto falso. Con un residuo di sensibilità deontologica, perfino i media nelle grinfie della lobby, che fin lì avevano sparato editoriali al cianuro contro Al Sisi, nella cronaca dei fatti ammettono che la storia è fondata sul nulla. L’ha diffusa l’agenzia Reuters pretendendo che fosse la verità giudiziaria, della Procura di Giza, sull’autopsia del corpo di Regeni. Due dirigenti del Dipartimento di Medicina Legale del Cairo avrebbero valutato l’esame autoptico. Immediata smentita della Procura e il sottosegretario alla Giustizia definisce la notizia falsa e priva di ogni fondamento e annuncia procedimenti contro chi l’ha pubblicata e la pubblicherà. A sua volta, la Reuters, coda tra le gambe, ammette che la bufala le è stata rifilata da due fonti anonime.

Patatrac. Ma non per Acconcia, che invece attribuisce la storia proprio a chi l’ha smentita, cioè direttamente alla Procura di Giza, diventata di colpo credibilissima, da sentina di imbrogli e frodi che era fin lì. Mi farei una soddisfatta risata se l’Interpol, su mandato del Cairo, lo prendesse per le orecchie  e gli facesse almeno sborsare un po’ dello stipendio malguadagnato.

Al Sisi brutto? Occidente orrendo.
Quello che è da sempre il primo quotidiano egiziano e di tutto il mondo arabo, Al-Akhbar, il cui prestigioso direttore Hassanein Heikal, grande amico di Nasser, deceduto proprio pochi giorni fa, ebbi il privilegio di intervistare per il Nouvel Observateur, mi ha confortato nell’ipotesi che ho avanzato in articoli precedenti.Verosimilmente – scrive – Regeni è stato tradito da uno dei responsabili della sua attività presso il think-tank angloamericano Oxford Analytica che ha voluto sbarazzarsi di lui dopo aver sfruttato le informazioni che aveva inviato”. Per esperienza e logica credo più a Al Akhbar, alla Procura egiziana, che dai tabulati telefonici e dai contatti di Regeni desume un ruolo dei Fratelli Musulmani nell’operazione, che ad Acconcia, anche se così andrei a infrangere la certezza razzista degli eurocentrici per i quali qualsiasi manifestazione del pensiero e dell’azione sotto il 38° parallelo (quello che taglia la Sicilia) è inficiata da inferiorità genetica.

Eppure a me e credo perfino ai tanti colleghi che sono più intelligenti di me, parrebbe di importanza primordiale e quasi risolutrice dell’intero garbuglio, il dato, abbastanza sconcertante, che  il militante dei diritti dei lavoratori lavorasse per fetecchie sanguinarie di della portata e importanza del capo spione britannico, McCole, e del padrino degli squadroni della morte Negroponte.. Perlopiù, in un paese che stava facendo di tutto per farsi detestare. Insopportabili in Israele e in Occidente la sua ricchezza energetica, il suo rapporto privilegiato con l’ENI, il suo ruolo in Libia, alternativo all’irruzione bellica dei neocolonialisti, la sua lotta ai terroristi Fratelli Musulmani, quinta colonna del sion-imperialismo nella regione. Gente, primatista mondiale delle provocazione False Flag, che a effettuare un rapimento-tortura-uccisione e attribuirlo al soggetto da destabilizzare non ci ha mai messo niente e non ci ha probabilmente messo niente neanche stavolta. Grazie anche al depistaggio degli Acconcia and company. Insomma, per isolare e stroncare questo grande e influente stato nazionale arabo si è scatenata una virulenta campagna terroristica di segno FM, si è abbattuto un aereo di linea russo da Sharm el Sheik uccidendo 224 passeggeri, si è attaccato il consolato italiano. Non vi pare di vedere uno sgargiante filo rosso?

Qualcuno obietta, ma come, quell’ Al Sisi non ha forse chiuso il passaggio per Gaza e allagato i tunnel tra Egitto e la Striscia contribuendo così al genocidio israeliano? Non è dunque sodale di Israele e, per la proprietà transitiva, anche di Usa, Nato e tutto il cucuzzaro? Non ha aderito alla campagna saudita contro lo Yemen (a parole, non c’è un soldato, un mezzo egiziano, in Yemen)? Cari amici, non ricordate un vecchio discorsetto che ci parlava di tattica e strategia? Di contraddizione principale e contraddizioni secondarie? Della complessità di ogni quadro di amicizie-inimicizie? E se quella barriera serviva a bloccare i Fratelli musulmani, di cui Hamas è la costola di Gaza e che stanno conducendo una campagna di stragi terroristiche dal Sinai all’Alto Egitto per sabotare il turismo e l’economia del paese che ha scelto di preferire il generale laico, brutto o bello che sia, all’integralista islamico, alla sua Sharìa, alla sua repressione degli operai e oppositori?

Con i mercenari jihadisti Nato dalle varie sigle in difficoltà  in Siria e Iraq sotto l’urto dei combattenti in difesa dei propri paesi assistiti dalla Russia, ecco che, grazie all’agenzia di collocamento e dei trasporti turca, l’Isis si materializza in Libia e va a sostituire i rivoluzionari democratici cari a Rossanda, prima, gli scafisti dei Fratelli ricattatori di Tripoli poi, come pretesto per lo sbarco sul bel suol d’amore e di petrolio. Grandi reclutatori di manovalanze, gli americani. Scatenate le vittime delle loro devastazioni su un’Europa in ginocchio che, disperata, si blinda contro i disperati con barriere e muri, Washington-Wall Street ora consente ai subalterni europei di fare il suo lavoro sporco in Libia, sotto la guida – ahahahah – della Pinotti.


Per sopravvivere da Stato arabo sovrano, unitario, laico, quando sei circondato da mostri che gli Stati arabi sovrani e laici li sbranano uno dopo l’altro, quando vuoi dare una mano alla Libia - da Stato arabo, sempre meglio che gli eredi del genocida maresciallo Graziani - perché non torni nella fauci dei cannibali coloniali (che infatti fanno a gara per arrivare prima e tagliare fuori l’Egitto via Regeni), tocca muoversi con spregiudicatezza, facendo cose che a molti non piacciono. Ma stiano zitti coloro di cui il famoso giornalista della Franfurter Allgemeine Zeitung ci ha raccontato che all’80 per cento sono sul libro paga della Cia. 

MEGABALLE DI SABRATA

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E' necessario reagire all'uragano di falsità, ignoranza, depistaggi, disinformazione che si abbatte sull'opinione pubblica dai vari "esperti", politici, militari, spie, provocatori che imperversano nei talk show, tg e giornali.
 
Se la logica, il cui prodest e la storia costituiscono un criterio di valutazione, l'uccisione dei due italiani a Sabrata e la continuata detenzione degli altri due costituiscono un chiaro e feroce messaggio al governo italiano e ai suoi piani relativi all'intervento in Libia.
Per gli uni si tratterebbe di un pretesto architettato per incitarci, insieme agli alleati Nato (del resto già presenti sul campo), a intervenire in forze, superando esitazioni e riserve, specialmente nell'opinione pubblica.

Per gli altri sarebbe invece un avvertimento a Roma di non intervenire.
Per i fessi sarebbe vero quello che ambigui personaggi in divisa a Sabrata stanno raccontando, cioè la balla dello scontro armato tra milizie filo-Tripoli (o esercito di Tripoli) di Sabrata con elementi dell'Isis in cui gli italiani sarebbero stati colpiti accidentalmente, o perchè usati come scudi umani.

Tutti si scordano dello scenario complessivo.
Non c'è dubbio che di messaggio a Roma si tratti. E di ricatto per mezzo dei due italiani ancora sequestrati.. Ma va visto in continuità sia con l'attacco al consolato italiano in Egitto dell'anno scorso, sia con gli accordi Cairo-Roma-ENI, relativi allo sfruttamento del gas egiziano nel Mediterraneo, sia con la maggiore inclinazione italiana verso il governo laico di Tobruk e il generale Khalifa Haftar, sponsorizzati dall'Egitto, sia con l'assassinio di Giulio Regeni, fatto ritrovare.torturato ai piedi di Al Sisi nel giorno in cui la delegazione italiana al Cairo doveva firmare una serie di accordi industriali, finanziari e relativi al gas.

Alla luce del fatto che i Fratelli Musulmani, da sempre manovalanza anti-araba del colonialismo e oggi fiduciari del Qatar, conducono la sanguinosa campagna terroristica in Sinai e nell'Egitto, governano a Tripoli, sono cugini se non padrini delle bande di tagliagole di Misurata e di tutte le formazioni jihadiste in Medioriente, sono i più probabili esecutori dell'operazione Regeni, l'episodio di Misurata credo debba essere collocato nella campagna sion-imperialista contro l'Egitto e il suo ruolo in Libia e nel quadro delle rivalità inter-Nato (in particolare Francia e Regno Unito contro Italia) per il ruolo di protagonisti nella riconquista della Libia e del suo petrolio.

Insomma, l'Italia se ne stia fuori dai giochi e, in ogni caso, non si azzardi di collaborare con Egitto e Tobruk a una soluzione anti-Fratellanza del nodo libico.


Rinvio anche al mio ultimo post sul blog www.fulviogrimaldicontroblog.info su Regeni e dintorni.

BERTA CACERES, nel segno del Che

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“Svegliamoci, svegliamoci, umanità! Non c’è più tempo, le nostre coscienze siano scosse alla vista dell’autodistruzione fondata sulla depredazione capitalista, razzista e patriarcale! Bertha vive!”  (Olivia, Berta, Laura, Salvador, figli di Bertha Caceres, leader indigena e internazionalista, uccisa a Tegucigalpa)

Giustificato forse dal precipitare sempre più travolgente di accadimenti gravissimi, di portata epocale, in Medioriente, Africa, Europa, sento però sulla coscienza il peso di aver trascurato da tempo un paese e un popolo a me carissimi e di cui avevo vissuto e raccontato le vicende a partire dal colpo di Stato del 2009 con cui l’imperialismo yankee ha voluto distruggere la sua rivoluzione e rimetterlo in ginocchio (docufilm “HONDURAS, IL RITORNO DEL CONDOR”).

Un peso piombatomi addosso come un colpo in pieno petto alla notizia dell’assassinio di Berta Càceres, compagna e amica, grande, eroica, imperterrita, leader indigena e nazionale dell’Honduras. Combattente per la liberazione del suo popolo a partire dai primi anni ’90, quando fondò il COPINH, Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras. Leader del popolo in resistenza con rinnovata determinazione dopo il golpe organizzato dagli Usa e, specificamente, da Hillary Clinton, Segretaria di Stato con  Obama, nel 2009. Un brutale, sanguinoso colpo di Stato che rovesciò il legittimo governo del presidente Manuel Zelaya. Un presidente che, avendo guardato alle esperienze di liberazione dal giogo colonialista nordamericano del Venezuela e degli altri Stati progressisti latinoamericani, aveva osato tirare il paese fuori dalla condizione di reietta repubblica delle banane, tagliare le unghie alle multinazionali e all’oligarchia locale che ne erano i sicari e avvicinarsi ai paesi antimperialisti e socialisti dell’A.L.B.A.. Un colpo di Stato sostenuto e approvato. nel suo svolgimento sanguinario e nel suo seguito stragista. dal primate cattolico, cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, per questi meriti poi messo da papa Bergoglio a capo della Commissione per la Riforma della Chiesa. Nientemeno.
    


Alla serial killer Hillary Clinton, oggi salutata come la candidata democratica alla presidenza che eviterebbe agli Usa il destino del degrado reazionario prospettato da Trump, va imputato anche l’assassinio di Berta che, pure, da poco era stata insignita del prestigioso Premio Goldman, il Nobel ambientalista, Dopo l’assassinio, celebrato con le sue fragorose risate, di Muammar Gheddafi, linciato dai suoi mercenari, dopo quelli di tutte le guerre sollecitate o condotte da questa belva umana, dopo le migliaia di uccisi o fatti scomparire dalla repressione dello Stato gangster honduregno, fatto nascere da Washington per simulare il ritorno alla democrazia dopo il colpo di Stato. Usurpatori che, rimosso e deportato Zelaya, soffocavano la formidabile resistenza popolare, protrattasi per mesi, in un bagno di sangue,

Attraverso elezioni fraudolente, condotte sotto la minaccia delle baionette dei golpisti, Washington installò al potere i suoi sicari, prima Porfirio Lobo Sosa e poi Juan Orlando Hernàndez, espressione degli interessi neocoloniali yankee garantiti  dall’oligarchia compradora honduregna. Una mezza dozzina di famiglie miliardarie, capeggiate dai famigerati Facussé, che nel passato avevano spolpato il paese e collaborato con le più feroci dittature apparse in Centroamerica, potè tornare all’antica collaborazione con le multinazionali nella comune depredazione del poverissimo paese: monoculture della palma d’olio, devastazioni minerarie, disboscamenti, centrali idroelettriche, sfruttamento del petrolio, espulsione di popolazioni dal loro habitat ancestrale. Le stesse che avevano collaborato con i gangster Usa alla creazione dei tagliagole Contras per abbattere la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Una delle operazioni più scellerate dell’imperialismo, affidata al campione degli squadroni della morte, John Negroponte. Esatto, proprio il datore di lavoro del giovane Giulio Regeni, poi spedito al Cairo e vittima di una manovra di diffamazione dell’Egitto.

Berta Caceres è stata ammazzata a casa sua, all’una di notte del 2 marzo, da sicari del regime e delle imprese che combatteva. Il fratello è stato ferito. Rimagono orfani, insieme a tutto un popolo, e non solo nella sua componente originaria, i quattro figli, Olivia, Bertha, Laura e Salvador. Avevo incontrato Berta tante volte, sia per le interviste che poi ho inserito nel docufilm “Honduras, il ritorno del Condor”, sia per stare insieme a discutere delle prospettive della rivoluzione honduregna, con altri amici del Fronte della Resistenza che avevano ospitato me e il collega Marco. Ci eravamo precipitati in Honduras pochi giorni dopo il golpe, il 29 giugno del 2009, e ci siamo rimasti per settimane, registrando per il nostro documentario lo svilupparsi dello scontro tra i golpisti e, poi, i loro successori “eletti” e una resistenza popolare che giornalmente scendeva in strada a sfidare la ferocia dei militari e dei loro squadroni della morte negropontiani, i “Tigre”.

Della direzione di questa resistenza di popolo, Berta fu, a mio avviso, la protagonista prima, accanto a tante altre figure di sindacalisti, politici dell’opposizione, attivisti dei diritti umani, dirigenti e masse indigene. Da esponente delle rivendicazioni dei settori indigeni, i più esclusi e deprivati, assurse subito a leader nazionale contro il golpe e poi contro la dittatura travestita da democrazia. Era tra i dirigenti del Fronte la personalità ideologicamente più matura, più consapevole delle implicazioni del golpe nel contesto della nuova offensiva Usa contro le esperienze antimperialiste e socialiste del grande movimento di emancipazione della “Patria Grande”. Quella offensiva che, con la caduta dell’Argentina in mano all’estrema destra filo-yankee, con la sconfitta parlamentare del chavismo in Venezuela, con i tentativi di destabilizzazione in Ecuador e Boilivia, aveva avuto il suo preludio nel golpe honduregno.

Percorsi, grazie alle indicazioni e ai contatti fornitimi da Berta e da altri militanti, come Lorena Zelaya, il paese da cima a fondo, dalle comunità afro-latinoamericane depredate del loro habitat naturale per far posto agli insediamenti turistici di lusso (da quelle parti si svolge l’oscenità dell’ “Isola dei famosi”), alle vaste terre boschive dell’Ovest e del Nord, terra del popolo Lenca  e di Berta.

Ovunque si incontravano realtà sorte sotto la breve presidenza di Zelaya e a cui la resistenza al golpe aveva dato ulteriore impulso, a dispetto della repressione che vedevamo diventare ogni giorno più  brutale e cruenta, con intere comunità sottoposte a coprifuoco, irruzioni, rastrellamenti, arresti e processi arbitrari, spesso costrette alla fuga e all’esilio. Strutture della resistenza su vari piani, dell’organizzazione campesina per la coltivazione e commercializzazione in comune dei prodotti, della formazione autogestita di scuole per esclusi e analfabeti, una formidabile radio dei Lenca a la Esperanza, fonte di informazione alternativa locale e internazionale, motore delle mobilitazioni per opporsi alle incursioni dei repressori. Una radio che il regime sabotava, chiudeva ogni due per tre e che tornava ogni volta a trasmettere, addirittura, con l’impianto sigillato, dai computer nella selva.

Da giornalista di strada, sulle vie percorse dalle persone a piedi, le vie della liberazione, l’esperienza dell’Honduras è stata una delle più belle, incoraggianti: la capacità di un popolo di dire la sua contro tutto e contro tutti, di un popolo da niente, ignoto e ignorato dal mondo, con meno soldi in tasca dell’ultimo scugnizzo, fuori dalle cronache e dai racconti dei viaggiatori, però pieno di musiche e di colori, ricchissimo di cuore e di mente su una terra saccheggiata e desertificata dai predatori alla ricerca di oro, che sia legname, minerale, acqua, zolla, una terra da riportare alla vita, da restituire ai suoi diritti e ai suoi frutti umani. Con  questo popolo de piè, in piedi, come dicono da quelle parti, abbiamo cantato i canti del riscatto cubano, latinoamericano, indigeno, consumato i pasti nelle mense dei volontari impegnati nel contrasto agli affamatori, ingoiato negli occhi e nella gola i gas degli sguatteri in divisa del padroncino gaglioffo locale e del padrone cannibale di fuori, schivato le pallottole d’acciaio rivestite gentilmente di gomma. Ed è perenne il ricordo di quella grata, al secondo piano di una scuola elementare, da cui usciva un coro di bimbi e pioveva in strada sulle colonne degli sgherri di regime che davano la caccia ai manifestanti: “Nos tienen miedo porque no tenemos miedo”, ci temono perché non li temiamo, uno slogan che dal 2009 continua a risuonare in tutto l’Honduras.

Il COFADEH è l’associazione per i diritti umani che fin dagli anni che precedettero la svolta progressista e democratica di Zelaya, sosteneva le vittime dei regimi totalitari installati da Washington e servi della famigerata multinazionale United Fruitse ne denunciava e perseguiva legalmente i colpevoli. Berta Caceres mi presentò Berta Oliva, che la dirigeva. Una piccola donna pulsante di energia, di passione e indignazione. Era la vedova di un giovane militante assassinato negli anni ’90. Quando andammo a intervistarla trovammo una folla di donne in attesa, quale ferita dalle percosse degli sbirri, quale con un figlio ingiustamente carcerato, quale con la casa distrutta dai paramilitari paralleli alle forze della dittatura. Le pareti di tutte le stanze erano tappezzate di immagini di vittime del prima e del dopo-Zelaya. Centinaia, quasi tutte giovani, moltissime donne. Le due Berta, Oliva e Caceres lavoravano di conserva, insieme ad altre donne erano l’avanguardia della resistenza. Come si poteva constatare in altre parti del continente che si era messo in cammino, la nuova America Latina anticapitalista, antimperialista e antipatriarcale, era donna.

Erano passate alcune settimane dal golpe e, a Tegucigalpa, piazze e strade davanti all’ambasciata Usa erano ininterrottamente presidiate da folle calate dai borghi poveri sulle colline, mentre la grande via che dall’Università portava al centro era bloccata dalle barricate degli studenti. Incontrai Berta Caceres nella sede del sindacato, quartiere generale del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare (FNRP), dove le varie organizzazioni riunite nel Fronte preparavano azioni di contrasto ai golpisti e poi ai loro successori pseudo-democratici ed elaboravano il programma per una nuova assemblea costituente, richiesta principale del movimento. Ricordo le parole di quella che mi era subito apparsa come la leader più matura, con la più attenta preparazione ideologica e la perfetta consapevolezza dei mandanti dell’attacco al suo paese e a tutta l’America Latina, dei loro strumenti e obiettivi. Una militanza indigenista e femminista che, però, si inseriva,  senza sterili settarismi, nel contesto dello scontro in corso tra popoli, capitalismo e imperialismo.

La nuova costituzione dovrà sancire i diritti della donna, diritti politici, economici, sociali. Il diritto all’autodeterminazione riproduttiva, cose che in nessun modo l’attuale costituzione riconosce. Abbiamo avuto compagne e compagni che sono morti nella lotta per questi diritti
Noi siamo discendenti dei popoli indigeni che hanno compiuto la più grande resistenza alla conquista. Questo non è mai stato riconosciuto, mai compreso, neppure dalla sinistra. L’imperialismo e la destra non si riposano. Li abbiamo sopravalutati e siamo rimasti come in letargo. Nella crisi generale del capitalismo, loro hanno bisogno delle nostre risorse, la biodiversità, il petrolio, la nostra cultura, i nostri saperi ancestrali. Perciò non rinunceranno. Ed è questo il tempo in cui il movimento sociale di sinistra, antimperialista, deve consolidare e rafforzare il suo processo di emancipazione. Deve essere una risposta non solo locale o regionale, ma internazionale, globale, contro il capitalismo”.

Ho poi di nuovo visto Berta nel bel mezzo di una manifestazione davanti all’hotel in cui l’OSA stava cercando di mediare, chiaramente sotto direzione Usa, per far passare il processo elettorale. Bertha, diversamente dalla componente sindacale del Fronte, non credeva alla possibilità che sotto l’oligarchia, che aveva preso il potere con la violenza, istruita e diretta dagli yankee rintanati a Palmarola, nella più grande base Usa del Centroamerica (la cui chiusura era stata ventilata da Zelaya), alle forze dell’emancipazione potesse essere riconosciuta la vittoria elettorale. Difatti da lì a poco, la farsa elettorale allestita dai golpisti confermava l’assunto che, con una destra fascistizzante e filo-Usa al controllo, nessun’alternativa di sinistra avrebbe mai vinto elezioni.  Ecco cosa la mia telecamera strappò a Berta, mentre in un caffé ci stavamo riparando dai gas.

Come popolo abbiamo il diritto di opporci con ogni mezzo a chi ci reprime, di porre condizioni ai tiranni. Vogliamo abbattere i dittatori, non vogliamo l’impunità per gli assassini del popolo honduregno. Non riconosciamo elezioni che sono solo un circo politico inteso a legittimare questo golpe. Non sarebbe solo tradire il popolo honduregno, ma tutte le lotte di emancipazione in questo continente e nel mondo”.

La coscienza internazionalista di questa grande rivoluzionaria latinoamericana e indigena, dovrebbe far riflettere le tante sinistre o pseudo-tali delle nostre parti il cui internazionalismo si è ridotto allo scimmiottare e riecheggiare i modelli interpretativi della realtà forniti dai poteri dell’oppressione e rilanciati da opportunisti e falsari autoproclamatisi difensori di diritti umani. Diritti umani che con quelli per  cui ci si è battuti e ci si batte in Honduras non hanno niente da spartire. Forte di questo retroterra politico e culturale, Berta non condivise la successiva decisione del Fronte, sostenuta dalla componente sindacalista e contrastata da quella indigena e studentesca, di mutarsi da movimento unitario e polifonico di massa in partito politico, “Libre”, e di concorrere alle elezioni del 2013. Promosse, con la sua organizzazione e altre, la continuità e l’intensificazione della lotta di massa e della costituzione di poteri alternativi sul territorio e in tutti gli ambiti della vita pubblica, per impedire allo Stato autoritario di consolidarsi.

Libre”, capeggiato dalla moglie di Manuel Zelaya, Xiomara, perse le elezioni grazie a brogli scandalosi, dimostrati e denunciati anche da organismi internazionali.  E il paese ripiombò in mano a un’oligarchia spietata nello sfruttamento e nella repressione, ma fortemente sostenuta ed elogiata  da Washington. L’Honduras divenne la prima tappa della megaoffensiva condotta dall’imperialismo contro i governi e i popoli latinoamericani che si erano sottratti alla mordacchia militare ed economica di chi aveva sempre considerato il subcontinente suo cortile di casa e fornitore gratis di materie prime. Il modello da moltiplicare era il Messico, consegnato, con la cosiddetta “guerra alla droga”, alla militarizzazione contro ogni forma di dissenso, al narcotraffico delle stragi e al saccheggio delle multinazionali. Il Messico del “Nafta”, trattato di “libero” scambio con gli Usa, precursore del TTIP con cui Washington e Wall Street intendono incatenare l’Europa  a una totale subalternità.

Le multinazionali tornarono a infierire su territori, comunità, risorse. La repressione ha reso l’Honduras il paese in cui si viene ammazzati di più al mondo. Soprattutto ambientalisti, difensori dei diritti umani, militanti indigeni, quadri dei movimenti sociali. In un’impunità che rasenta quella del Messico e riguarda il 92% dei delitti contro civili. Uno dei progetti più devastanti e offensivi con riguardo a uno stato di diritto e alla sua sovranità, fu quello, sponsorizzato da imprese Usa e avvallato dal regime, di creare una serie di città-modello su terre sottratte ai loro abitanti. Insediamenti di lusso, fortini dell’élite, totalmente esclusi dalla giurisdizione civile, penale e amministrativa dello Stato, dove plutocrati USA avrebbero potuto installare le proprie residenze e i propri business, liberi da ogni condizionamento legale, sociale, ambientale. Un TTIP in miniatura.

Negli ultimi tempi la battaglia di Berta e del Copinh si era andata concentrando sulla difesa dei territori ancestrali degli indios Lenca, nel nord-ovest boschivo del paese, dove le multinazionali, con il sostegno della Banca Mondiale, procedevano a disboscamenti, costruzione di grandi bacini e dighe, centrali elettriche, spesso finalizzate ad alimentare devastanti interventi minerari. Tutto con conseguente esproprio violento dei contadini e cancellazione delle loro comunità. Berta, a dispetto di costanti minacce di morte, di violenze contro i suoi attivisti, di arresti sotto false pretese, si mise a capo anche di questa lotta. Riuscì a sventare un progetto di diga e centrale idroelettrica costringendo alla ritirata la Sinohydro, massima impresa mondiale nella costruzione di dighe.

Ultimamente il Copinh e Berta si battevano contro la privatizzazione del Rio Gualcarque, terra sacra agli indigeni,  e contro la costruzione della diga di Agua Zarca, sempre in territorio Lenca. Il vice di Berta, Tomas Garcia, impegnato nelle stesse lotte, era stato ucciso nel 2013. Ma Berta era andata avanti. Fino  a quando la vendetta degli stupratori della sua gente e del suo paese non ha raggiunto anche lei. Ammazzato con una fucilata, proprio nei giorni in cui ero lì, anche Walter Trochez, giovanissimo, ma stimatissimo difensore dei diritti umani e gay. Intanto l’Italia onorava l’Honduras con il campione GLBT Vladimir Luxuria che vagolava per l’Isola dei Famosi con le mutande di Valeria Marini in testa. Titolone di “Liberazione” in prima pagina: “Forza Vladimir!” E’ la nostra sinistra..

Abbiamo perso una combattente senza pari dello schieramento antimperialista, una donna forte, intelligente, buona. L’Honduras ha perso una sposa, una madre, una figlia. Noi piangiamo Berta insieme al suo paese orfano e ne grideremo il nome contro l’ambasciata dell’Honduras a Roma. Là dove non vedremo di certo i bravi pacifisti e nonviolenti, impegnati a protestare contro l’Egitto e contro l’uccisione di uno che lavorava con tale John Negroponte,  comandante di squadroni della morte e massacratore del popolo che Berta difendeva. Coincidenze e contraddizioni della storia. Ci rimane solo di sperare che l’invocazione dei figli di Berta, citata in apertura, venga raccolta. Non solo dagli honduregni, ma dal popolo che Berta considerava il suo, quello che nel mondo viene calpestato, si alza de piè, non s’arrende. Un altro fiore dell’America Latina ci ha dimostrato come i/le Che Guevara non muoiono mai.



Obama dirige, la Fratellanza suona, qualcuno stona

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Se riusciamo a far sporgere il capino dalle slavine di informazione artificiale  che giorno dopo giorno, da schermi e pagine stampate mainstream, ci travolge, forse riusciamo a intravedere ancora qualche brandello di realtà. Qui si espone un’ipotesi, tra le tante verità incontrovertibili che ci sommergono, che mancherà di pezze d’appoggio granitiche, ma ha il pregio, imparato da Maria Montessori, di trarre un minimo di logica dal collegamento dei dettagli.

C’è un direttore d’orchestra, da qualche tempo è quello a stelle e strisce con stella di David sul cappello. E c’è un’orchestra che a volte suona in armoniosa sintonia, a volte perde il sincrono perché qualcuno va per conto suo e stona. Succede quando un settore dell’orchestra prende l’abbrivio e inserisce uno spartito diverso sul leggìo.E pare succedere ora, con un’orchestra in dissonanza tra due gruppi di musicanti che anziché andare di conserva, come il direttore vorrebbe, suonano l’uno contro l’altro.


Fuor di metafora, fanno gruppo e si muovono compatti all’attacco Turchia, Qatar e Tripoli, cavalli di razza di una Fratellanza Musulmana cui il direttore, o regista, memore dei servizi storicamente forniti dalla confraternita al colonialismo, aveva voluto affidare la risistemazione del Medioriente, nel segno di un islamismo integralista, lontano dalle fregole nazionaliste, sovraniste, laiche e addirittura socialisteggianti, degli Stati tempratisi nel fuoco delle lotte di liberazione. Di contro c’è il gruppone Casa di Saud, Emirati, Oman e frattaglie minori del Golfo che non è che siano apostati senzadio, ma sulla religione e sul petrolio vorrebbero non essere infastiditi nella loro egemonia. E a tal punto detestano la Fratellanza da essersi addirittura schierati dalla parte di quel laicone, amico di Putin (con il quale, del resto i sauditi hanno avuto ripetuti abboccamenti, il Qatar no, guai!) e bau bau massimo dei Fratelli Musulmani, che è il presidente dell’Egitto, Abdelfatah Al Sisi.

C’è ragione per sospettare che gli avvenimenti funesti degli ultimi giorni possano essere l’esito  di queste divergenze. Una specie di controffensiva della Fratellanza messa in grave difficoltà in Siria, dagli insuccessi suoi e dei suoi succedanei Al Nusra e Isis, in Egitto dalla rivolta popolare che ha eliminato dalla scena l’imam ultrà Morsi e favorito l’ascesa di Al Sisi, in Libia dagli unici che paiono poter prendere in mano la situazione e sono l’Egitto, i laici di Tobruk e il generale “neo-gheddafiano” Haftar.  Mettiamo in fila azioni e reazioni.

I turchi abbattono un Sukhoi e i Fratelli, o loro cugini di primo o secondo grado, un Boeing, entrambi russi, il primo sulla Siria, l’altro sul Sinai egiziano, due paesi a governo antislamista. Botta ai siro-russi, botta terrificante al turismo che sostiene l’Egitto. Niente da fare: esce fuori che l’Egitto si avvia verso una bonanza economica e fertili rapporti internazionali a vasto raggio grazie alla scoperta di un oceano di gas davanti alle sue coste. E che ci lavora con l’italiana ENI. E che Renzi, commesso viaggiatore dell’ENI, trascurando le fatwe dei Fratelli, va in Egitto e ci combina grossi affari. Visto che sul posto con i manager e a Tobruk con le Forze Speciali sono già arrivati i francesi, eterni guastafeste in Libia.

I Fratelli scatenano una campagna terroristica da un capo all’altro dell’Egitto. Ne fa le spese anche il consolato d’Italia al Cairo. Appunto. Ne fa le spese, appunto, anche un altro pezzo d’Italia, Giulio Regeni, a mezzadria però con gli angloamericani  McCole e Negroponte, spione e serial killer. Più inclini questi, per mandato storico, ai Muslim Brothers che non al generale che si dice erede di Nasser. In Italia tutti coloro che hanno polluzioni notturne sognando la Casa Bianca, o il Tempio di Salomone, aprono un fuoco di sbarramento sul demonio egiziano la cui malvagità farebbe impallidire di invidia Gengis Khan e Pinochet. Parigi, che da tempo tra il petro-sultano del Qatar e il gas-presidente d’Egitto ha scelto il secondo (anche per la comune vista sulla petrolifera Libia), il terrorismo islamista se lo fabbrica da sola. I Fratelli veri ne restano fuori. Con l’Italia si può, con i francesi è più rischioso.

Ma Roma, Palazzo Chigi, l’ENI, non demordono. Farsi sfuggire il boccone energetico egiziano, proprio mentre a casa nostra un possente movimento popolare No Triv, ora pure referendario, mette in discussione la distruzione del territorio nazionale tramite trivelle e piattaforme, scherziamo? E allora vengono fatti trovare morti, tra versioni deliranti che si scontrano tra di loro come palline impazzite sul biliardino, due italiani, Failla e Piano, tecnici ENI. La pallina più pazza è quella del chiodo che avrebbe permesso ai due sopravvissuti di scardinare una porta e ritrovarsi liberi in strada. Tutto succede a due passi dal municipio di Sabrata, dove si aggirano quelli dell’Isis e regnano i cugini musulmani dei Fratelli Musulmani di Tripoli. Gli uni fianco a fianco con gli altri. Una faccia una razza. Giustiziati? Colpiti nello scontro a fuoco? Armati anche loro? Scudi umani? Dice che sono stati quelli dell’Isis, e chi se no. 

A questo punto, da quelle parti restano appena i quattro gatti dei servizi e delle Forze Speciali. Ma i 5000 armigeri, ripetutamente annunciati dalla fregolosa Pinotti, vengono bloccati a mezz’aria da una presa acrobatica di Renzi. Dati i buoni rapporti Roma-Cairo, era da supporre che sarebbero serviti a sostenere la campagna già avviata a Bengasi da Haftar. Ma due morti e altri due a rischio di fare la stessa fine hanno fatto correre il premier da Barbara d’Urso, dove si decidono le sorti del mondo, e a compiere quel testacoda, da “guerra alla Libia” a videogioco. I Fratelli fanno paura.

Ma i Fratelli di Tripoli e del Qatar non si fidano. Dopo essere stati per mesi in prima fila a invocare  l’intervento straniero “contro l’Isis” (sarebbe come se la ‘ndrangheta chiedesse ad Alfano di infierire su Cosa Nostra), immaginando che l’intervento avrebbe favorito loro su quelli di Tobruk, subodorato che Roma non è ancora del tutto convinta, la menano per le lunghe nella restituzione dei corpi dei due nostri infelici connazionali. Possiamo immaginare, insieme ai superesperti che blaterano fantasie da schermi e giornali, che intorno alla triste vicenda di Failla e Piano e quella tormentata di Calcagno e Pollicardo, si arrovellino e contendano meriti e demeriti bande di briganti, settori degenerati delle milizie di Misurata, berberi filo-Tobruk calati a valle, guardie municipali di Sabrata, l’Isis che si vendica su di noi giacchè non può picchiare gli americani che li hanno disfatti con le bombe. Ma se non è zuppa è pan bagnato. La guerra è tra i Fratelli Musulmani con rispettivi sponsor statali, turchi e Qatar in testa (ma anche Israele, capirai: da teocrati a teocrati…), ed Egitto e rispettivi amici (con cui pure briga Israele, da sempre con i piedi in tutte le staffe).

E gli Usa? Nulla è lineare neanche qui. Un po’ con i turchi nella Nato e nell’intento di sconvolgere l’Europa con i rifugiati, un po’ contro i turchi con i curdi siriani che gli fanno costruire una base e un aeroporto anti-Assad in Siria in cambio di protezione e secessione. Quanto alla Libia, in un modo o nell’altro la vogliono, magari spartita tra francesi, britannici, loro, e una pompa di benzina all’Italia. Di prammatica preferiscono gli Islamisti con i sottoprodotti Isis e Al Nusra, che poi sono un’impresa comune tra loro e tutti gli altri. Probabilmente, ancorati alla tradizione, nonostante i recenti rovesci subiti dai Fratelli in Egitto, Siria e Iraq, preferiscono quelli che non hanno la fisima degli Stati Nazione e tantomeno del panarabismo (ancora gli scotta quell’esperienza). Anche perché è dalla religione che fioriscono le migliori lobotomie di massa e i più efficienti regimi totalitari.

Ecco perché l’ambasciatore Usa Philips, dalle bocche di fuoco del Corriere, ha sparato schiaffazzi a Renzi per non avere ancora attraversato il Canale di Sicilia in armi. In direzione di Tripoli, però, non di Tobruk. E il discolo fiorentino?  Qualcuno, a vederne l’andirivieni  tra guerra e pace, tra minacce dei Fratelli e minacce del padrino Usa, tra il Cairo e Tripoli, s’è chiesto se si trattava di un mini-Craxi a Sigonella, o del solito Arlecchino dei due padroni. Poi lo si è  ritrovato in classe, ma sotto il banco, a promettere alla professoressa D’Urso di essere buono. Buono un po’ con l’uno, un po’ con l’altro, come è virtù nazionale. La quadra sarebbe beccarsi il gas egiziano, e al tempo stesso non far incazzare la Fratellanza (e chi la pompa). Bisogna vedere come la prende Mr. Philips. 


Comunque, amici, sono ipotesi perché, come diceva Lorenzo, “di doman non v'è certezza”.

A Roma in quattro gatti per Berta Caceres, con dietro i milioni coscienti del mondo

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s://youtu.be/ZZOPoMVeJrA

Questo è il link per una mia intervista fatta in occasione del presidio per Berta Caceres a Roma, il 10 marzo, a Piazza SS Apostoli.

Il 10 marzo, a Roma, in Piazza SS Apostoli, un gruppo di persone ha commemorato una grande combattente, caduta assassinata dai sicari delle multinazionali e dal regime installatosi dopo il colpo di Stato dei militari organizzato dagli Usa nel 2009, per rimuovere un presidente, Manuel Zelaya, che aveva tentato di sottrarre Honduras al controllo imperialista e alle grinfie dei saccheggiatori nazionali ed esteri dell'ambiente e delle comunità indigene e popolari. Berta Caceres, un'indigena Lenca, femminista, rivoluzionaria, fondatrice e coordinatrice del COPINH, organizzazione di indigeni e masse popolari contro il capitalismo, il razzismo e l'imperialismo, dal momento del golpe ha guidato la resistenza di popolo contro i golpisti e contro i loro successori narcotrafficanti che hanno svenduto il paese agli interessi nordamericani e, con una repressione sanguinaria, hanno fatto dell'Honduras il paese dove si muore ammazzati di più nel mondo. Berta è stata uccisa a casa sua, a La Esperanza, in terra Lenca. nella notte tra il 3 il 4 marzo 2016.A ricordarla non c'era, nonostante l'ampia diffusione data all'evento e l'enorme importanza politica che la tragedia honduregna riveste per l'America Latina e il mondo, l'ombra del movimento pacifista, anti-guerra, antimperialista. Nè sindacati, nè Arci, nè Don Ciotti, nè altri preti, nè nonviolenti, nè donne in nero, nè Tavola della Pace. Non ne abbiamo sentito la mancanza. In America Latina, nel Sud del Mondo, tra le persone coscienti, milioni hanno ricevuto da Berta coraggio e fiducia e le hanno tributato la loro riconoscenza.  
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